Michele Maggi, La filosofia della rivoluzione. Gramsci, la cultura e la guerra europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 243, 28 €
Gramsci e la rivoluzione che non ci fu
Di Guido Liguori
Il recente volume di Michele Maggi, La filosofia della rivoluzione. Gramsci, la cultura e la guerra europea (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 243, euro 28) non è solo una monografia su Gramsci, ma piuttosto un affresco della cultura italiana dei primi decenni del Novecento, dove Gramsci si formò e operò. Ciò non vuol dire ovviamente negare la centralità della figura di Gramsci nella ricerca in questione, ma sottolineare come la ricostruzione del pensiero gramsciano venga fatta collocandolo in una fitta trama di uomini, idee, situazioni, correnti culturali, nel cui esame spesso ci si addentra non meno che nell’analisi – che pure a volte è accurata e approfondita, specie per quanto concerne il periodo torinese – dei testi del comunista sardo. Croce in primo luogo, ovviamente. Ma anche Gentile. Prezzolini, Papini e il gruppo della “Voce”. E Gobetti e “i suoi”, in primis Guido Dorso, a cui è dato un ruolo che forse va al di là della sua effettiva rilevanza, ma che viene preso a emblema di tutta una corrente di pensiero nazionale (l’antigiolittismo). E Oriani, sullo sfondo. E poi ancora Giovanni Amendola. E soprattutto Togliatti, su cui Maggi si sofferma ripetutamente, sia in riferimento al pensiero togliattiano degli anni ’20, sia in riferimento alla “gestione” che Togliatti fece del pensiero di Gramsci dopo la caduta del fascismo. Poiché uno degli aspetti più intricanti del libro, ma anche un motivo di oggettiva difficoltà, è l’andamento non puramente diacronico, ma piuttosto a zig zag, con andirivieni ripetuti tra epoche diverse, a seguire il filo di un discorso che sembra non poter essere interrotto da una disciplinata forma espositiva, ma pretende di cogliere subito i nessi e le conseguenze logico-temporali.