In campo aperto

EGEMONIA E VIOLENZA IN GRAMSCI E BENJAMIN

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21 gennaio 2005

EGEMONIA E VIOLENZA IN GRAMSCI E BENJAMIN
Relazione discussa nel seminario "In campo aperto" della IGS-Italia

Alberto Gianquinto

UN CONFRONTO.
Gerratana, per i Quaderni[1] di Gramsci, non lemmatizza le occorrenze del termine ‘violenza’, termine peraltro presente già nell’Ordine Nuovo del 13 settembre 1919,[2] e in Benjamin (Per la critica della violenza)[3] non v’è traccia esplicita del termine ‘egemonia’.
Eppure, sopra tutti, centrale sovrasta comunque il concetto di ‘egemonia’, per quanto concerne il tema della ‘violenza’, non solo in un parallelo teorico istituibile tra Benjamin e Gramsci: Gewalt (la violenza), in Benjamin, ha il suo naturale confronto con l’egemonia gramsciana in quanto entrambi i concetti sono: il primo, l’equivalente tedesco anche 
di potere ed autorità, a cui lo stesso termine ‘egemonia’ fa riferimento; il secondo, quello dell’egemonia, coinvolgente il tema della ‘lotta’ (in particolare ‘di classe’), della storia e della rivoluzione, della dittatura, fino al tema della guerra, nelle sue diverse forme, e alle figure in esso incluse, a cominciare da Gandhi per esempio, per scendere, volenti o nolenti, alle citazioni più altamente teoriche di Kant, Rousseau,[4]

 

Machiavelli o della Repubblica di Platone; nonché quello dell’ideologia e della religione, a cui in ogni modo, a sua volta, rinvia la riflessione di Benjamin. Egemonia e violenza sono in relazione stretta attraverso gli ‘equivalenti’ o i ‘coinvolgenti’ argomenti della lotta, del potere, dell’autorità. Qui, insomma, non s’intenderà (perché correttamente non si può) separare dal concetto di ‘egemonia’ quelli di ‘autorità’ e di ‘potere’ (tutti inclusi, in tedesco, in quello di ‘violenza’).Oltre che evidente dal punto di vista del contesto gramsciano e della realtà storica, se ne ha ulteriore conferma nei vocabolari della lingua italiana e nei dizionari dei sinonimi.[5]

Ma c’è un altro, più inquietante, motivo della centralità dei due correlabili concetti ed è il valore fondamentale che essi hanno toccato e raggiunto, soprattutto in questo passaggio di secolo: è un dato di fatto, tanto più evidente e pressante quanto più operante è l’interazione raggiunta e quanto più reattiva e reagente, al contrario, è l’integrazione in atto di civiltà, culture e religioni. La fondazione di ogni presunto valore umano, che sia un diritto, ha assunto da sempre un segno autoritario e la sua conservazione ha intrapreso più che mai il percorso della lotta per l’affermazione di un potere, dell’egemonia e della violenza: dai ‘diritti’ vitali a quelli della convivenza, dai ‘valori’ assegnati sull’origine a quelli sul destino dell’umanità, tutti sembrano attraversati dai termini correlati della violenza e dell’egemonia.
Perché, al di là degli stessi comuni concetti che li mettono a confronto, dobbiamo parlare proprio di correlazione di violenza ed egemonia? Dire che c’è in comune autorità, potere e lotta, non basta.
Il fatto è che dal punto di vista del soggetto, sia in Gramsci che in Benjamin (sebbene – come si vedrà – da punti opposti), si pone al centro della loro costruzione e visione esistenziale l’identico presupposto di una indubitabile affermazione, di un’ideale assoluto, di un dogma, potenzialmente egemonico, presupposto quindi autoritario e, in linea teorica e virtuale, massimamente violento: un’affermazione di fede non può ammettere posizioni altre dalla propria. Dal punto di vista soggettivo, l’atto di fede ha in sé implicita la violenza; la religiosità radicale ha la violenza tacita e sottintesa.
Dal punto di vista dell’oggetto della fede, poi, necessariamente immanente, si pone l’autorità intrinseca di questo ‘ente-oggetto’, propria del suo potere di creazione e di destino assegnato sull’umanità. A guardar bene, anche tale punto di vista è comune a Gramsci e a Benjamin, quale correlato del dato soggettivo della fede. Vediamo nel dettaglio le due posizioni: utopia, dietro l’ideologia e l’egemonia, in Gramsci; pura violenza divina, in Benjamin.
Egemonia e storia. Nel primo, l’ideologia è organizzazione egemonica su altre ideologie: egemonia è filosofia organizzata, è pensiero ‘vero’ che si fa partito. In questo senso, l’egemonia, come valore conservativo di ideologia (per usare un termine di Benjamin, di cui ci appropriamo), è strumentale, mezzo ad una triplice finalità e funzione: sociale, politico-organizzativa e culturale. Ma essa è anche potere in sé, sociale, politico e culturale, vale a dire: non solo è la finalità dell’organizzazione (dal punto di vista storico), ma anzi è fondativa di essa (dal punto di vista meta-storico).
Da un lato, la funzione egemonica dell’ideologia nel rapporto sociale fra le classi intende escludere altri possibili equilibri: attraversa il modello capitalistico e, tramite la sua struttura tutta politica (prima che sociale), approda ad una nuova forma culturale; se, in effetti, è anche possibile un consenso volontario, etico-morale, che viene dal profondo della società, è però nel regime parlamentare che si perfeziona il potere egemonico, che diventa ‘forza’ (sia pure di maggioranza), forza ‘dirigente’; allora la sua crisi segna, ad un certo suo momento necessario, la crisi stessa dello Stato. Forma culturale, s’è detto, pensiero speculativo che genera ideologia e quindi egemonia, ma che in sé contiene, necessaria, anche quella ulteriore dimensione speculativo-religiosa che segna il momento disgregativo dell’egemonia reale e una svolta: la fossilizzazione conservativa di un apparato e la prefigurazione rigenerativa di una utopia. In Gramsci, il momento della costituzione storica di un’egemonia, quando raggiunge e assume il carattere della cristallizzazione teorica di un processo e di una forma culturale, si fossilizza in un meccanismo, che ha il valore speculativo di una fede e pretende di assumere valore di organismo definitivo e insieme valore conservativo, che, sotto le spinte dell’evoluzione e del processo storico, si tramuta in un processo disgregativo della vecchia organizzazione egemonica, rifondativo di nuova ideologia. Ciò che marca l’inizio di una fase storica di tipo nuovo apre anche la fase della sua disgregazione.
Il percorso gramsciano è eminentemente storicistico e dialettico, ma si chiude, come la storia in Hegel, col raggiungimento del fine. L’egemonia, quella democratica e parlamentare è infatti interna all’ideologia liberale e si traduce in una burocrazia dirigente cristallizzata, che esercita un potere coercitivo, a sua volta portatore di una richiesta continua di eleggibilità di tutte le cariche, quindi di un liberalismo estremo, portatore della sua dissoluzione e della necessità di un principio di ‘costituente’ permanente. Il superamento necessario di questo stato di cose impone un rovesciamento rivoluzionario, anti-parlamentare: l’egemonia democratica si rovescia in dittatura di classe, lungo il cui percorso viene sospeso ogni principio di ‘garantismo’. Nella fase della ‘lotta’ per l’egemonia si sviluppa una scienza della politica, che dà la giustificazione della funzione egemonica e della costruzione dello Stato (nazionale), organo politico necessario nell’esercizio dell’egemonia. E questa si configura allora come superamento del dominio esistente, verso una ‘direzione’ intellettuale e morale, di condivisione ed omogeneità sociale nell’organizzazione politica, raggiunte le quali (rovesciato, cioè, il regime borghese) non c’è altra possibilità di ulteriore rovesciamento di direzione. Il ‘fine’ è a quel punto storicamente raggiunto.
Egemonia e teoria della storia. Da un altro lato, allora, come si vede, Gramsci si muove in un quadro di ‘teoria della storia’ e lungo un percorso che va dal regno della necessità a quello che dovrà condividere l’ossimoro di libertà e pianificazione. Ma quel quadro e quel percorso in tanto si pongono come possibili in quanto è presupposto l’essere (ideale) d’un regno della libertà come ‘condizione’ d’esistenza della sua stessa finalizzazione. Quel regno non è l’analogo del regno di Dio, come è inteso da Benjamin, ma è pur sempre l’oggetto necessario, l’essere stesso che ‘giustifica’ la finalizzazione storica. Ogni forma culturale è pensiero speculativo generatore di ideologia, s’è detto; e il potere egemonico ad essa immanente ha iscritta anche questa dimensione religiosa: lo storicismo finalistico ha l’altra faccia della medaglia: l’anticipazione del ‘fine’ storicamente ‘conservato’ e raggiunto (raggiungibile), che assume valore ‘fondativo’. Senza tale anticipazione dell’immaginazione, senza questa ‘utopia’, non si dà neppure la possibilità di un rovesciamento rivoluzionario, neppure nasce quella scienza della politica che intende ‘giustificare’ la funzione egemonica e lo Stato, necessario per l’esercizio dell’egemonia.[6]
Rapporto con Benjamin: metafora e allegoria. Quella, che nel percorso storico è violenza nella forma dell’autorità, della forza e del potere conservativo dell’insieme della legge, nell’anticipazione utopica è invece necessariamente e forzosamente violenza nella forma della ‘posizione’, della fondazione metafisica e religiosa (teologica e utopica, appunto) del contenuto della legge. Il rapporto con Benjamin è strettissimo, nel senso che, se per Gramsci l’utopia, l’assenza e la lontananza futura del ‘fondamento’ della storia, è la faccia nascosta della sua visione storica, in Benjamin la possibilità di far sorgere una visione storica è data dalla presenza del potere divino, dal suo essere qui, vicino. In Gramsci tutta la storia è la grande metafora del nuovo mondo che viene annunciato attraverso una trattazione, che è ‘analitica’ dello sviluppo storico; in Benjamin, viceversa, è proprio il presente ad essere un simbolo, l’allegoria – come rappresentazione simbolica storicizzata – in forma di grido d’allarme, che invece riassume in sé tutta la storia dell’umanità. La metafora è anticipazione della verità che si pone alla fine della storia, l’allegoria è rappresentazione di quella verità che è fin dal principio (fin da ora e in ogni momento) trascendente la storia; l’allegoria non ha potere d’immaginazione perché ha nel suo ‘presente’ tutta la storia, la metafora non ha potere rappresentativo perché solo nel futuro ha il senso della sua storia. Dove l’allegoria ha la funzione di interpretare il ‘senso’ della storia nel suo presente, cioè ex-ante, la metafora è necessaria per comprendere, per capire quel ‘senso’ attraverso i problemi che in essa storia si aprono, cioè ex-post.
Religione, centro della cultura. In effetti, come centro della cultura, tanto in Benjamin quanto in Gramsci, si colloca (surrettiziamente o meno) proprio la religione, un pensiero non (propriamente o interamente) laico,[7] nelle sue forme simboliche o utopiche: nell’allegoria, dove la trascendenza della verità è la fonte della violenza pura divina; nella metafora, dove l’istanza religiosa è componente necessaria intrinseca allo Stato, al partito, alla fondazione organizzativa temporale della politica.[8] La religione in Gramsci, al di là della riflessione critica sul ‘senso comune’ e sul pensiero della ‘moltitudine’, è identificata, infatti (se si esclude il ‘culto’ in quanto sistema di rapporti tra uomini e dei),[9] con una filosofia (della moltitudine):[10] essa è ideologia,[11] anzi utopia (la più gigantesca): tentativo di conciliare [qui: risolvere] in forma mitologica [qui: utopica] le contraddizioni reali della vita storica[12] e strumento stesso di azione politica (come viene riconosciuto alla rivista Civiltà Cattolica),[13] in una indissolubilità, nel processo di sviluppo storico-politico, con Stato e partito (le concezioni del mondo, le religioni, reagiscono sullo Stato e sul partito, costringendoli a riorganizzarsi continuamente).[14]

FENOMENOLOGIA: IL MITO E LA STORIA.
L’organizzazione. Il fulcro del problema ‘fondativo’ (sia della violenza e del diritto, sia dell’egemonia e dell’utopia rivoluzionaria), che pur si ripercuote lungo la storia dell’umanità innumerevoli volte, secondo Benjamin è quello della violenza pura divina; secondo Gramsci, invece, quello dell’anticipazione utopica dell’egemonia e della sua funzione in rapporto al divenire storico. Certo assai rilevante è quale forma abbia preso o abbia da prendere l’organizzazione (il ‘mezzo’) dell’egemonia e della violenza, non dal punto di vista del loro valore ‘fondativo’, ma di quello ‘conservativo’, già decidibile (ma non decisivo-decidente)[15] sul piano storico-fenomenologico (delle forme della ‘conservazione’ della violenza).
Gramsci: società liberale e dittatura. Che Gramsci abbia modificato il suo punto di vista sulla dittatura in rapporto all’egemonia è stato oggetto di discussione ed è sostenibile, ma non tocca il nocciolo teorico in discussione. Una forma di egemonia, che presupponga anche collaborazione e libero consenso attivo, cioè un regime liberal-democratico alla Croce, non dovrebbe essere poi, almeno sul piano strettamente teorico, diversa da quella dittatura in cui, secondo Gentile, società civile (società dell’egemonia) e società politica (come esercizio di una dittatura ideologica) diventano indistinguibili per l’equivalenza di ‘forza’ e ‘consenso’ e per l’identificazione delle due società nello Stato.[16] Anche sul fronte delle teorie della rivoluzione la collocazione dell’egemonia (sia contro il trochijsmo delle tesi sulla rivoluzione permanente, sia contro il ‘contrapposto’ concetto di ‘dittatura’ democratico-rivoluzionaria)[17] non muta i termini del problema: sia in quanto fondazione ‘di diritto’,[18] sia in quanto conservazione di esso, l’egemonia, legata ai suoi principi di forza, autorità e potere, resta principio di violenza e di lotta; si tratterà di specificare poi la distinzione operata, in rapporto ai fini e ai mezzi impiegati.

Lotta di classe e guerra, in generale. La lotta interna alla società come lotta di classe e la lotta tra le società statuali, nella forma della guerra, toccano in Gramsci rispettivamente il tema ‘giacobinismo’ e ‘rivoluzione’, il concetto di ‘classe’ all’interno dell’organizzazione ‘fordista’ del lavoro e dell’americanismo in quanto forma della società, e infine le differenti manifestazioni della guerra. Raggruppiamo secondo gli argomenti.[19]

Giacobinismo e rivoluzione. La tesi di Gramsci, riconducibile a Lenin (contro la teoria di Trochij della rivoluzione permanente), è quella del possibile e necessario superamento del giacobinismo[20] (in quanto teoria-prassi di una rivoluzione permanente) in un concetto di ‘egemonia’, intesa sì come complemento della teoria dello Stato-forza,[21] ma comunque pure come inversione d’un indirizzo di violenza, quale mezzo giustificato dal fine.[22] Non ogni mezzo viene giustificato: in quel ‘superamento’ del giacobinismo è immanente la tesi dello sbocco necessario a una ‘volontà collettiva’ o ad un approdo, segnato dall’utopia, in cui il ‘fine’ si rovescia nel (suo) oggetto: utopia, che non crea un diritto (storico) ma crea la prefigurazione del ‘contenuto del diritto’, la giustizia. Tutto ciò comporta alcuni problemi, irrisolti o non posti: come vada considerato il compito egemonico, formativo-educativo dello Stato ed il ruolo, in vario modo opposto, della società civile, nella ‘costituzionalizzazione’ della carta dei diritti; quale strategia autoritaria di ‘blindatura costituzionale’ sia necessaria per la conservazione dei livelli raggiunti di ‘consolidamento istituzionale’ dell’egemonia civile; se, dato il percorso della unificazione coercitivo-dittatoriale (transitoria) per opera dello Stato laico e posta, in generale, la violenza come punto di partenza necessario, non siano pregiudicate per sempre, su queste premesse, le libertà a cui si aspira; in particolare, come possa ‘uscire’ una società libera da una ‘società regolata’ in uno Stato ‘etico’; se non si venga a configurare una nuova religiosità (nello Stato ‘etico’), una nuova metafisica, opposta all’idea di radicale laicità dello Stato. Si oppone il liberismo ad una libertà ‘organica’ (il cui concetto, peraltro, sembra talvolta associarsi al mito organicistico della scienza biologica della prima parte del ‘900),[23] ed aleggia una sorta di utopismo dell’estinzione dello Stato e della raggiungibilità spontanea di una ‘uguaglianza’ morale (etica?) di fronte alla legge; ma come si pongano e come si risolvano i problemi delle ‘differenze’, che non sono solo di ‘genere’, non viene detto.
Se poi occorre consolidare l’ascesa al potere della classe rivoluzionaria, se l’energia giacobina è un percorso lungo il quale occorre rendere impossibile la controrivoluzione, dove e quando finisce il compito coercitivo, di violenza, che (volendo anche distinguere e, graduando, separare i concetti) dovrebbe aprirsi a più moderati rapporti di egemonia?
Lotta di classe e fordismo. Anche i temi del fordismo (come uno dei modi d’essere del capitalismo) e dell’americanismo (come forma sociale e culturale) appartengono alla categoria generale dell’egemonia.

Il primo tema considera il razionalismo della produzione: razionalismo, conseguente ad una composizione demografica in equilibrio e non parassitaria (come in Europa e in Italia, in Cina e in India), libera invece da ristagno e dall’essiccamento delle sorgenti e capace di accumulazione di capitale e di eliminazione delle sedimentazioni parassitarie nel commercio e nel trasporto (organizzati in proprio dal capitale produttivo, con effetti di risparmio).[24] L’egemonia può quindi e deve nascere direttamente dalla fabbrica, con un numero minimo di intermediari della politica e dell’ideologia.
Inoltre l’intervento dell’organizzazione del lavoro fin nel ‘privato’ della vita operaia, la razionalizzazione che si accompagna al ‘proibizionismo’, all’ispezione, al ‘controllo della moralità’, il tipo nuovo di operaio e di uomo conforme alla produzione, la rottura tayloristica del vecchio nesso psico-fisico del lavoro, hanno il punto d’approdo in una sorta di ‘puritanesimo’ fordista, che, secondo Gramsci, può e deve interiorizzarsi quando non è più ‘imposto’, ma ‘proposto’ dal lavoratore, in una nuova forma di società. La violenza, identica con le forme dell’egemonia lungo il percorso storico[25] (nel tentativo gramsciano di separare e graduare in qualche modo i termini), si configurerebbe nella forma di un’egemonia di segno diverso, ma non proprio separata dalla violenza, ma alla fine del percorso storico, dove i termini assumono la connotazione dell’utopia.
Americanismo poi sta ad intendere struttura sociale e tipo di Stato liberale orientati nel lasciare spazio alla libera iniziativa. Ma il clima americano ha mutato solo l’epidermide della civiltà europea, nulla invece nei rapporti dei gruppi fondamentali. La questione è se l’americanismo possa costituire un rivolgimento graduale, una ‘rivoluzione passiva’, come quelle del XIX° secolo, o l’inizio di una rivoluzione ‘attiva’ di tipo francese. La convinzione del valore di fondamento ‘etico-politico’ dell’egemonia e dei concetti che ruotano attorno ad essa, si conserva, in Gramsci, anche a proposito dell’analisi dell’americanismo, perché l’idea (fordista) del suo nuovo ‘rapporto di produzione’ e della nuova organizzazione del lavoro è strettamente connessa con quella di una nuova visione antropologica, di un nuovo rapporto sociale, generatori di un gruppo dirigente, di guida e di valore pedagogico, che sottendono tuttavia l’argomento della violenza ‘alluso’ nel fordismo.
L’egemonia oggi non nasce più dalla fabbrica fordista, neppure attraverso il suo tipico nesso etico-politico immanente al ‘rapporto’ di lavoro, oggi polverizzato. Non è tuttavia scomparsa, per quelle nuove condizioni, la funzione produttiva del lavoratore (della classe), né il suo ruolo sociale, che non ha bisogno della ‘fabbrica’ tradizionale, ma piuttosto di un altro e più alto livello di ‘coscienza di classe’ e di un’altra organizzazione, conforme ai nuovi modi di produrre e di concorrere alla produzione (capitale finanziario, ecc.). Non è necessario ed anzi deve essere più che mai evitato oggi il ‘calco’ negativo del modello capitalistico.

La guerra. La sua origine teorica. Ogni violenza, dice Benjamin,[26] nella misura in cui ‘conserva’ il diritto, è parimenti tale che il diritto ‘conservato’ indebolisce la violenza stessa che lo ‘fonda’; la violenza, cioè, si manifesta, ma si obnubila anche, si nasconde nel diritto che ha posto: assume la forma stessa del ‘diritto’.[27] Gramsci – lo si è visto a proposito di fordismo e americanismo – pensa similmente ad una nuova epoca storica (ma nascitura nel tempo dell’utopia, non in quello di un presente simbolico), in cui l’egemonia, nella interruzione e alla fine del ciclo storico della produzione capitalistica, segna una caduta del suo intrinseco potere di violenza, pari alla crescita di organizzazione di consenso. Qui, sotto il segno dell’utopia, il diritto cessa di essere il contenitore (la forma, giusta o ingiusta che sia): resta il suo ‘contenuto utopico’, la giustizia. Il diritto si conserva attraverso l’egemonia (facendo crescere quel consenso), indebolendo la violenza originaria, che lo fonda. Ma, nel percorso del tempo proto-storico del mito e di quello della storia, regna la guerra: guerra, per entrambi – Benjamin e Gramsci – forma massima di violenza.

Le sue forme. L’enorme sacrificio di una guerra di posizione chiede, in Gramsci, una forte concentrazione dell’egemonia. Ma tutti i modi della guerra, nelle definizioni fornite ad essa da Gramsci, rinviano ad egemonia e violenza. Nella politica sussiste guerra di ‘movimento’ fin quando si conquistano posizioni non decisive, ma quando siano decisive si passa alla guerra d’assedio.[28] E ancora: quel che è guerra di posizione nel campo economico è rivoluzione passiva nel campo politico: guerra di movimento (politica) è stata quella della rivoluzione francese e guerra di posizione, invece, dalla restaurazione del Congresso di Vienna al 1870. Guerra partigiana si può chiamare quella degli irlandesi e delle minoranze deboli ed esasperate e va distinta dall’arditismo, sostenuto invece da una grande riserva, sebbene immobilizzata.[29] Tre forme di guerra si distinguono anche nella lotta politica dell’India contro gli inglesi: di movimento, di posizione e sotterranea: la ‘resistenza passiva’ di Gandhi o il boicottaggio, come guerre di posizione; ‘scioperi’[30] come guerra di movimento; ‘preparazione clandestina’ come guerra sotterranea.[31]
Croce, ricorda Gramsci, reagisce contro l’impostazione popolare della guerra come guerra di civiltà (a carattere religioso) e vede nel momento stesso della pace quello della guerra e viceversa. Ma non è poi contro l’impostazione religiosa della guerra: quel che importa a Croce è che gli intellettuali capiscano che altro è l’ideologia (strumento pratico per governare) e altro la filosofia e la religione. Croce, sottolinea Gramsci, benedice come il papa armi tedesche e degli alleati, senza contraddizione.[32] Insomma, analogamente a Croce, anche Gramsci, come s’induce dalla sua critica, non vede e non denuncia l’origine e il carattere religioso della violenza, non distingue fra un’ideologia versus l’egemonia storica (come ‘organizzazione’ egemonica) e l’utopia versus un’egemonia meta-storica (l’egemonia come ‘fine’ di una fede).

Sull’origine storica delle guerre. Gramsci lascia purtroppo impliciti gli argomenti che Benjamin esplicita sulle radici conservative di violenza: le guerre generatrici di guerre, e si concentra sull’analisi economica: ogni nazione deve esistere in modo che i vari gruppi si trovino in certi rapporti di equilibrio, che variano a seconda dello stato di agricoltura e industria. Le limitazioni dell’area sociale di ogni paese impongono l’estensione della base lavoratrice e del plusvalore.[33] Su questo piano si manca di cogliere il nocciolo: quello della guerra come generatrice di guerra e conservatrice di violenza.

La riflessione principale sulla guerra e l’aggressione. Che dire della guerra, per esempio contro il nazismo? Di fronte all’aggressione la guerra può essere giustificata? Si dovrebbe dire di si, quando l’aggressione non è ‘giusta’. Ma quale è l’aggressione (o la guerra) giusta? Chi o quale principio lo decide? In Gramsci sembra potersi dire che è la razionalità del disegno storico, riconoscibile per il tramite delle grandi metafore che metodologicamente ricostruiscono il tessuto della storia, ad essere in grado di dare la risposta giusta di fronte all’aggressione. Benjamin sostiene invece che è il diritto, nel suo stesso interesse, a dover monopolizzare la violenza: l’intenzione, in questa, non è né una salvaguardia dei fini giuridico-positivi (tramite mezzi che garantiscano e legittimino il fine), né la salvaguardia di fini naturali (tramite mezzi che siano giustificati dal fine stesso), ma proprio e solo la salvaguardia del diritto in quanto tale a fornire la giusta risposta alla scelta. Ma così ogni violenza trova giustificazione storica: solo la pura violenza divina si sottrae a questo esito, in quanto ‘giustizia che annienta il diritto’.[34] Diritto di sciopero[35] e diritto di guerra[36] ne sono esempi. La violenza militare è dunque creatrice e conservatrice di diritto e il militarismo un obbligo alla violenza come mezzo ai fini statuali. E così, tanto la polizia, quanto la pena di morte,[37] hanno in sé entrambe le manifestazioni (fondativa e conservativa) della violenza.
Anche la kantiana ‘pace perpetua’ ha valore di sanzione: è il riconoscimento di nuovi rapporti (come nuovo diritto), quand’anche senza una garanzia de facto della loro sussistenza; il principio di pace perpetua ha carattere di creazione giuridica, di ‘fondazione’, e come tale cade sotto il concetto di ‘violenza’.[38]

QUALE DIRITTO?
In Benjamin, la distinzione di diritto naturale e diritto positivo è rilevante perché coinvolge il ruolo della violenza nella connessione mezzi-fini.
Nel giusnaturalismo, la violenza è un prodotto naturale: l’uso del mezzo violento trova giustificazione nel fine giusto (giustifica ogni violenza rivoluzionaria e ideologica del terrorismo, come nella rivoluzione francese, ad esempio). Nel diritto naturale, (dove il potere della violenza esiste come un dato di fatto) si può giustificare il mezzo solo con la giustizia dei fini: il fine ‘giustifica’ i mezzi e non ci sono condizionamenti da attribuire a questi. I fini naturali rimangono però senza riconoscimento storico, sono meta-storici.
Nel diritto positivo, la violenza è un prodotto storico e l’uso del mezzo violento non può ‘garantire’ il fine, che sottende quell’impiego: il diritto positivo-storico garantisce la giustizia dei fini, ma solo con la legittimità dei mezzi e dunque bisogna dire che non esistono fini incondizionati; non resta che l’arbitrarietà del giudizio sul mezzo: tutta la storia si fonda sull’arbitrio di questa decisione. Nel gius-positivismo (dove il potere della violenza esiste come un dato storico) i fini sono riconosciuti solo storicamente, ma senza fondamento ontologico.[39]
Ma se, nei due casi, la violenza è mezzo e solo mezzo, allora il punto focale viene ad essere se essa sia mezzo a fini giusti e la questione si sposterebbe sul sistema dei fini (naturali o giusti?).
Se c’è una oggettività ‘naturale’ anche nel percorso ‘storico’ del capitalismo, allora l’argomento coinvolge anche lo storicismo gramsciano.
Ma fini naturali e fini positivi, come sottolinea Benjamin, collidono tra loro quando e in quanto perseguiti con la violenza: il fine naturale, che giustifica la violenza dei mezzi, e il fine positivo, garantito dalla violenza (il mezzo) che legittima il fine, sono logicamente ‘esclusivi’: infatti, la violenza non può essere insieme giustificata e garantente il fine; il mezzo non può essere insieme giustificato e legittimante il fine. Occorre condannare la violenza in sé.
Il ruolo della violenza, nel pensiero di Benjamin, di fronte al nesso mezzo-fine, incontra l’incompletezza del diritto, naturale e positivo. La sola violenza che si possa cercare, quella dei mezzi, ha a fronte, da un lato, un fine senza fondamento ontologico (nel diritto positivo) e, dall’altro, un fine senza decidibilità (riconoscibilità) storica, nel diritto naturale.
Dunque la ricerca di una fondazione della violenza storicamente fallisce. Occorre risalire dalla fenomenologia storica alla riflessione meta-storica, alla questione della pura violenza divina, in Benjamin (non più violenza del mezzo, non più violenza fondativa di diritto, ma condizione postulativa) e alla questione della violenza utopica e della sua egemonia, in Gramsci.

I TRE PIANI: MITO, STORIA, DIVINO E UTOPIA.
Fenomenologia e teologia. Benjamin, abbiamo visto, giustifica il diritto di sciopero[40] così come il diritto di guerra e la pena di morte[41] o la polizia[42]come interessi del diritto stesso a ‘monopolizzare la violenza’ per salvaguardare se stesso: ogni violenza è, come mezzo, ‘potere’ che pone e conserva il diritto. E Gramsci, a proposito della dittatura, sostiene che la ‘lotta’ – e il suo carico di violenza – deve essere condotta sviluppando il concetto di ‘egemonia’. Ma questo è quanto accade sul piano della fenomenologia storica. Solo la violenza divina è pura: solo l’utopia è sopra il diritto storico e naturale: entrambe non sono mezzo. O esiste un mezzo puro non violento? Vediamo meglio.

Sciopero politico, sciopero proletario. Sulla base della distinzione operata da Sorel fra le due forme di sciopero, Benjamin[43] vede in quello generale politico uno ‘strumento’ violento che modifica le condizioni di lavoro e crea nuove condizioni di diritto, in cui lo Stato ne esce rafforzato; lo sciopero generale proletario ha invece il fine di distruggere il potere statale, sebbene sia mezzo puro, intrinsecamente non violento, in quanto, nel suo esito anarchico (in quanto, cioè, non ‘fonda’ diritto nuovo), nega uno Stato di diritto: un esito, le cui conseguenze, negative, hanno tuttavia altre cause. Stretta è l’affinità con le posizioni di Gramsci,[44] il quale parimenti distingue sciopero sindacale e politico e le relative organizzazioni: del sindacato, da un lato, e dei Consigli di fabbrica e del partito, dall’altro, secondo la distinzione (di sapore hegeliano) di classe in sé e di classe in sé e per sé, di economia e politica; ma tace sul loro diverso valore, rispetto alla violenza.

Pura violenza divina ed egemonia pura dell’utopia. In Benjamin, uscendo dalla fenomenologia del mito e della storia, la sola violenza autenticamente rivoluzionaria è la pura violenza divina, che pone la ‘giustizia’ e annienta il ’diritto’, o meglio: le sue forme storiche, fondando (soggettivamente) il suo ‘contenuto’ eterno, come condizione oggettiva, postulativa. Violenza divina, che viene, che accade e annuncia, per simboli e allegorie e nulla anticipa. In Gramsci, invece, il potere egemonico dell’utopia, che anticipa (ma ‘fonda’ anche in tal modo) la nuova legge e il diritto nuovo[45] (anch’essi privi, come anticipazioni, d’ogni forma storica), non accade, ma viene preparato nella storia attraverso una serie di metafore.
La fondazione in Gramsci è diversa che in Benjamin: il potere dell’utopia ‘fonda’ perché prefigura, anticipa appunto, e prepara, ma non ‘rappresenta’ la nuova legge nel percorso storico; in Benjamin il potere divino ‘fonda’ il contenuto della nuova legge (come condizione) perché lo costituisce, ma non lo ‘immagina’ (è puro contenuto di giustizia). In Benjamin non c’è ‘derivabilità’ storica di quel contenuto; in Gramsci, al contrario, anche se la sua metodologia, fondata sulla semplice metafora, non è in ultima analisi sostenibile, si sostiene invece comunque la derivabilità della nuova legge dalla storia. In Benjamin la manifestazione ‘mitica’ della violenza è il destino; in Gramsci si è di fronte alla manifestazione ‘storica’ della violenza, che si chiama Stato.

Violenza mitica e violenza divina: destino e giustizia. Stando a Benjamin, la violenza fondante il diritto (senza forma) della giustizia si distingue dalla forma della violenza-collera (e dal castigo), che è il potere-principio del diritto mitico, dettato dal destino. Ma Benjamin[46] dice anche: la manifestazione mitica della violenza (la collera) resta sostanzialmente identica ad ogni altro potere giuridico; se anche quella storica (come quella mitica) resta il castigo (diciamo: nella forma di sistema giuridico-storico delle pene), la manifestazione divina della violenza è invece la giustizia.

La violenza mitica e storica pone diritto, quella divina annienta il diritto. La tesi di Benjamin[47] è che si può distinguere mito da storia, sebbene la distinzione sia solo culturale (e, come s’è visto, nel tempo del mito, si manifesti nella forma della collera). Nella violenza divina non c’è collera, non c’è minaccia, non si pone né si garantisce un confine, non si delinea un destino, non v’è castigo (che non sia ‘pena’ nel diritto storico) né sacrificio, ma esistono solo le pene (come forma meta-storica dei sistemi giuridici). Essa purifica, non crea diritto, anzi lo annienta, nelle sue forme storiche: crea invece il suo contenuto eterno; è cioè giustizia (come simbolo ‘ideale’). Se essa creasse diritto, questo si riverberebbe su tutta la storia (e, data la sua fonte, il simbolo prenderebbe ‘forma’ di diritto, unico, lungo tutta la stessa storia). La violenza divina invece, che non è mai ‘mezzo’ di esecuzione, ‘governa’ e non ‘domina’.[48]
E ciò si avvicina alle considerazioni che Gramsci fornisce sullo sbocco finale dell’egemonia.
Si domanda Benjamin: può mai il diritto (nato dalla violenza e da essa conservato) essere adoperato o addirittura impugnato contro il mito, per il quale si deve intendere tutto intero il ‘passato’ della storia?
Ma perché la domanda non dovrebbe piuttosto venire estesa alla pura violenza divina? Non potrebbe il diritto venire impugnato contro la pura violenza divina, in nome di una giustizia laicamente fondata sul solo contratto sociale (senza dimenticare che un contratto, a sua volta, presuppone comunque la sua violenza fondativa)?[49] Questo, quanto al divino. E la violenza, inoltre, non pone forse il diritto solo in quanto tutta la ‘forza’ della legge sta nel valore e nel potere ‘mistico’ che l’autorità assume? Questo, invece, quanto ad una riflessione critica sull’uomo: secondo Derrida, la ‘forza’ intrinseca alla legge (la Gesetzeskraft) sta infatti nel fondamento mistico della ‘autorità’.[50]

Analogia metaforica e allegoria. Gramsci vuole trasformare, già con una anticipazione, con la forza dei nomi e delle categorie (per affinità analogica), una realtà storica nella direzione di una realtà utopica; Benjamin vuole invece rappresentare l’attualità nella sua potenzialità allegorica, per rendere subito visibile l’essenza eterna (non futura, ma sempre presente) della ‘giustizia’, cioè del diritto ‘soltanto giusto’. ‘Critica’ della violenza in Benjamin ha il senso kantiano di definizione del ‘limite’, di circoscrizione fenomenologica del problema a fronte della sua estensione metafisica (vale a dire: trascendente i confini della soggettività empirica e della storia, entrata cioè nel regno del puro contenuto eterno del diritto, che annienta ogni forma di esso): la ‘critica’ riguarda cioè la distinzione tra violenza conservativa ed effettivamente fondativa. Ma ha anche il senso di definizione del ‘criterio’ della violenza, secondo cui essa è ‘mezzo’ per fini giusti e insieme principio della legalità, di fronte all’imbastardimento storico di mezzi e fini.

Violenza mitica e divina, conservativa e fondativa del diritto. Il problema della conservazione del diritto è squisitamente mitico-storico, quello della fondazione, invece, è ogni volta (lungo la storia) meta-storico e tocca la riflessione filosofica e il pensiero religioso, anche se violenza fondante e conservativa s’intrecciano insieme nella loro circolazione mitico-storica. Menke,[51] seguendo Derrida, ritiene che il rapporto di violenza mitica e pura-divina non rispecchi l’opposizione tra violenza conservativa e fondativa, perché sul piano di quella mitica non si può distinguere tra momento fondativo e conservativo. Derrida separa tempo mitico e tempo storico; solo lasciando il primo inizia la storia. Se questo è vero dal punto di vista della consapevolezza delle società, rispetto al loro auto-evolversi nel tempo, non è vero nella coscienza che intende invece il mito già come esistenza proto-storica, immessa nel percorso storico. Lungo questo percorso, che muove dal tempo mitico, c’è l’imbastardimento del divino, dove il diritto si configura insieme fondativo e conservativo.
A voler cercare un corrispettivo gramsciano dell’argomento, si potrebbe rintracciarlo nel machiavellismo, in quanto compromesso ‘storico’ sull’utopia.[52]
La manifestazione mitica e storica (non solo quella proto-storica) della violenza è poi, stando a Benjamin, sempre ‘destino’; la manifestazione divina pura non è mai destino, ma ‘giustizia’.
Anche l’egemonia gramsciana si presenta nei due percorsi della storia e della riflessione religiosa, ma nella prospettiva opposta, nella quale l’utopia, in quanto fede soggettiva e ontologia dell’immaginazione produttiva, è proiettata nel futuro, alla fine della storia: è la grande metafora di una ‘comprensione’, che ex-post, cioè via via che si presentano gli eventi, anticipa il senso della storia stessa. L’egemonia è forza, potere, autorità, dunque violenza necessaria per conservare l’utopia della nuova legge, ma altresì per ‘porla’, per fondarla, anticipandola nella fede militante.
La contrapposizione di Benjamin tra violenza mitica e violenza divina sembra derivare dalla necessità di conservare un terreno puro alla fondazione, sottratto all’inquinamento, al rimescolamento, all’imbastardimento che obnubilala purezza della fondazione e rende precaria l’allegoria, la rappresentazione simbolica, interpretativa della verità che trascende la storia e che dà ad essa immediatamente, tutto in una volta, un significato, senza dover trasformare metaforicamente eventi oggettivi (come Riforma e Rinascimento) in altri. Il trascendente meta-storico non deve essere confuso con il mito.
La violenza, suddivisa da Derrida e poi da Menke[53] in divina (rivoluzionaria, contro Stato e diritto) e mitica, è tale che, se la prima è decisiva(cioè decidente), non lo è la seconda, che però è decidibile, a differenza della prima (non ‘riconoscibile’); una ‘decisione’ su quella pura è solo successiva, ormai storica: nel senso del ‘giudizio’, i momenti del potere decisivo-decidente e di quello decidibile non sono contemporanei.

ALTERNATIVA DELLA NON-VIOLENZA.

Valore fondativo della violenza egemonica in Gramsci e inesistenza dell’alternativa della non-violenza. Forte in Gramsci pesa la questione, più che del controllo delle forme della religiosità sociale, della centralità, invece, della ‘fede’ metafisico-religiosa dell’impegno etico-politico, che si fonda sulla ‘postulazione’ di un dover-essere e conferma l’esistenza, mai abbastanza sottolineata, di un valore fondativo della violenza e dell’egemonia.
Per opporre a questo esito fideistico dell’impegno politico un percorso alternativo, di stampo del tutto razionale, occorrerebbe una disponibilità ‘infedele’ all’impegno (contro una rigida ‘indisponibilità’ nell’impegno), come visione laica della politica, una rinuncia alla forza concettualmente religiosa dell’utopia, un ripiegamento sulla dimensione laica del semplice ‘progetto’: soltanto da qui potrebbe cominciare a valere la potenza dei vantaggi nella responsabilità (non ‘etica’, ma ‘contrattualistica’) delle conseguenze dell’agire, la scelta della pluralità ideologica, la speranza del potere della competenza e l’arma della non-violenza come ‘condizione’ di libertà.[54]

Il mezzo puro non violento, in Benjamin. Ai mezzi, sia legali che illegali, sempre violenti, Benjamin oppone, in un punto del suo saggio,[55] il ‘mezzo puro’ non violento (gentilezza, simpatia, amore, fiducia), che non è mezzo immediato di soluzione di conflitto fra ‘persone’, soggetti, individui, ma mezzo mediato attraverso una tecnica di intermediazione di cose (conversazione, dialogo, intesa), essenzialmente la lingua o l’azione diplomatica o l’azione dello sciopero generale proletario:[56] la violenza si giudica solo dai suoi mezzi, non dai suoi fini o dai suoi effetti.[57] L’inganno (e quindi la lingua) può nascondere la verità e in ciò non è violento, né fu sostanzialmente punibile nel diritto romano e antico-germanico,[58] sebbene si sia contro di esso per il timore della possibile violenza conseguente.
La metafora e l’άποχώρησισ. È dunque la grande metafora storica dell’origine e della creazione di un moderno Stato etico-educatore, fondato sul principio di egemonia del politico sul sociale, che va messo in causa, oltre che dal punto di vista del metodo storiografico, per il suo intrinseco valore etico-filosofico, di Weltanschauung, di religione laica, nella sua costruzione e nelle sue stesse proprietà specifiche, per la centralità del partito nello Stato etico e di quel percorso ‘rivoluzionario’ nazionale-popolare, che ha il suo fulcro nel possibile e necessario ruolo ‘organico’ dell’intellettuale integrale, totalitario, prodotto della cultura del partito unico di governo, portatore di democrazia dall’alto, organizzatore e regolatore della società civile, detentore esclusivo delle regole del garantismo: insomma, certamente per la funzione ‘culturale’ del principio di egemonia (nella sua direzione intellettuale e nell’organizzazione politica), che vuole il controllo della ‘moralità’ dell’uomo nuovo, nascente dalla razionalità della produzione capitalistica: egemonia, che si sostituisce alla circolarità dell’interazione alto-basso fra cittadino e creazione culturale; egemonia e conseguente ‘salto’ nell’utopia meta-storica, fondativa della violenza della fede, opposta a quel ’trarsi indietro’, a quell’άποχώρησις, che è conforme a un’idea, a un progetto, a una strategia di ‘processo’ continuo, permanente, non violento di rivoluzione.

BISOGNO DI DIRITTO E DUBBIO.

Diritto e bisogno di diritto. Violenza fondativa di diritto, come l’atto che ‘pone’ e ‘impone’ il diritto, non è lo stesso che violenza generativa di diritto, in quanto si pone in un percorso storico di fondazione; e violenza è anche ‘stato’ storicamente dato, generato da ‘bisogno di diritto’ e, come tale, è da distinguere dalle altre: fondativa e generativa di quel diritto. Il potere egemonico insito nella spinta anticipatrice dell’utopia contrattualistica, che ha storicamente condotto al ‘contratto sociale’, in quanto bisogno di composizione d’interessi, attraverso una via d’uscita dalla violenza stessa, sottolinea queste distinzioni.
Distinzioni, che Benjamin sembra non riconoscere, in quanto, alla domanda se esistano mezzi non violenti per comporre interessi in contrasto, sostiene che un regolamento concluso pacificamente non sfocia mai in un ‘contratto’ giuridico; il contratto, infatti, anche se concluso di buon accordo, riconduce sempre alla violenza, possibile nel caso di violazione del contratto – per cui il ‘risultato’ del contratto non esclude la violenza (che resta ad esso immanente, anche quando appaia a posteriori). Anche l’‘origine’ del contratto rinvia (a priori) alla violenza (nel senso di Benjamin) perché questa, sia pure non presente nell’atto contrattuale – come violenza creatrice di diritto – vi è sempre ‘rappresentata’ in quanto il ‘potere’ che garantisce il contratto è, a sua volta, di origine violenta: senza la consapevolezza, infatti, di questa violenza ‘latente’ dell’istituto giuridico, il contratto decade.[59] Ma posto questo, si può ancora dire che il potere fondativo e garante a priori, così come il potere conservativo e garante a posteriori, presuppongono il bisogno della composizione di interessi, generatore della violenza (e a sua volta da essa – altra – generato) che genera e fonda poi la composizione. E opportuno distinguere una violenza che ‘pone’ (e ‘im-pone’, in quanto tale) diritto, e violenza causa del suo ‘porsi’ (diritto, come sua generazione e conseguenza): sul filo di tali distinzioni si definisce almeno in parte il fronte del diritto positivo-storico (questo generativo, oltre che fondativo) e del diritto naturale (solo fondativo).

Crisi d’identità e dubbio. Dopo quanto s’è detto sulla ‘opposta convergenza’ delle riflessioni di Benjamin e di Gramsci quanto alla violenza e all’egemonia, un’ulteriore riflessione va forse ancora posta. Anticipazione dell’utopia e rappresentazione simbolica della verità, immaginazione allegorica e interpretazione del senso della storia, egemonia fondativa e pura violenza divina hanno posto la fede, massima espressione di ‘implicita’ violenza, al centro della indagine critica su questi temi e, con ciò, la radice religiosa della cultura al centro della società, la religione al centro delle civiltà storiche. Utopia di giustizia e giustizia-simbolo contrapposta al diritto, quali manifestazioni meta-storiche, mitiche e storiche della violenza; simbolicità dell’annientamento del diritto e anticipazione immaginativa di un ‘diritto giusto’ come metafora di una fenomenologia, lungo il tempo della quale il diritto è posto, fondato e conservato con la violenza; approdo meta-storico, dove l’utopia della giustizia finalmente fondata e la violenza ricondotta a fine (e non più mezzo) si mitigano, s’addolciscono e diventano ‘governo (e non più ‘dominio’), anche se non sono ancora la fine o la promessa d’una fine del rapporto potere-politica; e così la promessa di un regno della ‘legittimità’ senza legalità, cioè senza potere; la promessa di un tempo della ‘auto-governabilità’ senza governo; la promessa del superamento della contraddittorietà del rapporto che il ‘governare’ ha rispetto alla ‘democrazia’[60]: tutto questo ha a che fare con quel fondamento mistico dell’essere umano di fronte all’autorità, che abbiamo incontrato in Derrida.[61]
Occorre che il dubbio s’insinui nella costruzione simbolica e metaforica, che nel dubbio il rapporto potere-politica si pieghi ad una legittimità ‘sans phase’ della giustizia, che con il dubbio la tecnica politica riprenda la strada maestra della ‘diplomazia’[62] e intraprenda il sentiero mai battuto dell’άποχώρησισ, del ‘passo indietro’, aperto alla comprensione storica. L’imbastardimento storico del divino, il compromesso storico sull’utopia, che rendono decidibili e riconoscibili le violenze lungo la storia, ma lasciano irriconoscibile la loro essenza meta-storica (anche se decisiva e decidente), fanno intravedere, nell’origine mistica dell’autorità, quella visione ‘magica’ del mondo generata da una crisi d’identità degli individui, che allontana dal mondo reale e cerca alternative di violenza da contrapporre alle responsabilità dei sistemi.[63] Per questo occorre quel ‘passo indietro’ rispetto al sistema, necessario affinché un’identità perduta si ristabilisca al nuovo più basso livello delle mediazioni comprensive, nel soggetto rivoluzionario portato alla violenza ri-fondativa. La strategia diplomatica (non violenta, come in Benjamin) del ‘passo indietro’ può essere, a differenza della resistenza passiva di Gandhi (pur sempre considerata violenta da Gramsci), la più rivoluzionaria forma non violenta perché capace di ricucire gli strappi storici creati dalle guerre.

UNO SGUARDO DI RIFLESSIONE.
Innanzi tutto alcune considerazioni generali, sull’insieme dei problemi. C’è, si può dirlo, un prius teoretico nella linea del pensiero gramsciano e di Benjamin: esso consiste nella critica allo stato della riflessione sul senso della storia; in effetti, allegoria e metafora sono prese in considerazione proprio sotto tale punto di vista, cioè, come qui si vede, quello della funzione epistemica che esse, sorprendentemente, assumono.
È questa priorità che sembra assegnare un intento estremistico alle nostre considerazioni, ma non può esserci estremismo almeno di fronte alla dimensione del problema: senza un’adeguata soluzione, non solo viene meno l’affrancamento da una cultura radicata ancora alle sue radici metafisico-religiose, ma neppure si pone una prospettiva politica esente da quei limiti gravi che si sono denunciati. La teoria dell’egemonia in Gramsci non ha niente a che fare con la prassi politica della dittatura personale (Stalin, per esempio): sottolineare il significato del nesso teorico ‘egemonia-violenza’ non vuole affatto significare anche l’attribuzione a Gramsci di una prefigurazione dello sbocco politico (staliniano) ‘dittatura-del-capo – oppressione’.
In altre parole, il problema non è quello di rischiare di appiattire Gramsci sullo stalinismo, ma di non riuscire invece a separare i temi dello storicismo gramsciano da quelli di una credibile epistemologia della storia. Quindi neppure il problema (ovvio e, in altra sede e contesto, doveroso) è quello delle distinzioni entro l’ambito della violenza.
Un giudizio storico poi, se posto come interno alla lotta per l’egemonia: una storiografia, quando ricondotta alla politica, vedrebbe allora liquidato a priori il problema del senso della storia (che sarebbe già dato, in essa: anzi, dalla posizione assunta nella lotta, sarebbe da lì che verrebbe a conseguire la stessa possibilità effettiva di una storiografia): e così non ci sarebbe più né scienza né una sua epistemologia. Stiamo in tal modo forse annaspando nella rivoluzione passiva, cara agli intellettuali? Occorre dire che lo storicismo non può mai essere ‘laico’ perché assoluto (o ‘assoluto’ perché laico), vale a dire: perché al di sopra di ogni pretesa speculativa (a-storica e a-politica). Evidenziare gli interessi delle classi dominanti (ponendosi dall’altra ‘parte’) e, di qui, fare ‘storiografia autonoma’, fuori dalle ipostatizzazioni categoriali e fattuali dell’ideologia dominante, non esprime un esercizio di egemonia alternativa, ma sottopone semplicemente la scienza alla politica.
Ideologia dominante? Quindi, assieme alla storiografia, anche il diritto stesso: entrambi espressi dalla forza (violenza) dell’egemonia? Un diritto politico, allo stesso modo di una storiografia politica? Anche potendo poi graduare fra intenzioni –gramsciane – e diritto reale del potere legislativo giudiziario? Insomma: P.I. Stučka,[64] A.J. Vyšinskij, E.B. Pašukanis, invece di garantismo? Ma se c’è (eccome!) un carattere classista del diritto e della storia, questo non è una dannazione necessaria, che si sottragga, fino alla realizzazione dell’utopia, al possibile controllo epistemologico.
La questione non è, alla fin fine, quella di giustificare Gramsci risolvendo, per esempio, l’ossimoro libertà-pianificazione entro la convinzione che nella raggiunta libertà, si vedrà come potranno ben mettersi le cose. Conta invece l’idea filosofica della ‘chiusura’ della storia e quindi di un senso reale e non metaforico del nesso fede-violenza (per il tramite del percorso ideologia-egemonia-utopia).
E non è neppure centrale la collocazione di Gramsci nella tradizione messianico-salvifica di un modo del marxismo, quanto piuttosto la conseguenza del pensiero egemonico (e della violenza), il vero correlato di quella tradizione escatologica. E se l’intenzione gramsciana è certamente quella di un’ideologia ‘totalizzante’ (o totalitaria) di ricomposizione della società e dell’individuo, disgregati, bisogna tuttavia ricordare che la ricomposizione, in Gramsci, passa per quel percorso di fondazione escatologica. Se fallisce la ricerca della fondazione della non violenza nella storia e nelle teorie del diritto (naturale e positivo), da questo consegue necessariamente anche il fallimento dell’ottimismo rivoluzionario, nella misura in cui quel fallimento è legato alla caduta dell’utopia. Quindi, non è questione di scelta tra pensiero ottimista o pessimista: in questione è purtroppo un dato oggettivo. Si può proporre di voltare pagina e optare per la non violenza, ma questo non fa fare nessun passo avanti nella comprensione del senso della storia. La possibile obiezione, quindi, secondo cui la critica di simbolo e allegoria verrebbe a lasciarci senza altre alternative, non può essere corretta perché (e nel senso che) è proprio l’epistemologia della storia ad essere in questione.
Si può obiettare che l’impiego dell’arma della negazione e della distruzione finisce per produrre quel che non si voleva, di rivoltare cioè l’arma contro se stessi? Forse no, perché la forma della critica non elimina la necessità del suo uso, che è rivolto, non alla negazione in se stessa, ma alla ricerca di una convincente spiegazione della storia.
Un vero laicismo va di pari passo con una capacità di autocritica e ad essa si accompagna. Mancherebbe allora, qui, questa capacità, sollevando forse anche una sgradevole sensazione di autostima, che si manifesterebbe in una sorta di critica dell’esistente e, insieme, in una presunzione di voler restarne fuori? Di fronte allo sforzo per mettere in chiaro un grande nodo irrisolto, viene da pensare, piuttosto, che, se condotta in tali termini, la critica potrebbe dare un’impressione di reazione infastidita per un oltraggio compiuto e un toccato livello di blasfemia, del tutto assenti invece nelle intenzioni.
Non si tende alla costruzione di una ‘antropologia pessimistica’, ma si intende una implicita traduzione politica: primo, la tematizzazione della non violenza (che ci sia sempre stata non è certo un buon motivo per eternarla). E così come la libertà non è mai astratto concetto, ma sempre legata ad un concreto ‘di’ o ‘da’ qualcosa, anche la tematizzazione della violenza muove concretamente, più che dalle figure dei suoi ‘fondatori’, dai nodi complessi che quelle figure hanno fatto e fanno emergere.

VERSO UN APPROFONDIMENTO.

La storia è priva di razionalità intrinseca, in senso hegeliano: anzi in sé non ha senso alcuno, come ha potuto innegabilmente mostrare Popper;[65] quindi neppure possiede quella razionalità che hegelianamente si dovrebbe poter avere nelle già avvenute conciliazioni degli opposti, e neppure quella razionalità propria dell’attesa utopica, di là da venire, che riconcilierebbe storia e dover essere kantiano. C’è ben poco da dire: l’utopia (quale garanzia soggettiva e oggettiva di un percorso di senso degli eventi) non è disponibile a sempre nuovi modi d’un suo essere: modi, in cui la razionalità si annunci nella e alla coscienza anticipatrice; la storia, in quanto sequenza di accadimenti, tace, non dice nulla. Il principio speranza, enunciato da Bloch, e così lo spirito dell’utopia (ancora Bloch) e l’intera fenomenologia delle utopie, non sono l’ontologia del ‘non ancora’ come trama dei fatti storici, come non sono la psicologia del ‘così sarà’, dell’atto di fede. Solo l’anticipazione della percezione, solo la potenza dell’immaginazione, solo la supposizione della comprensione e la traccia dell’agire soggettivo ne sono i segni, ma segni anche dell’arbitrio d’un senso attribuito ad eventi connessi secondo scelte che testimoniano di una realtà riconducibile tutt’al più a Weltanschauungen e psicoanalisi. Cos’altro può mai essere un’epistemologia della storia che assuma come ‘condizione iniziale’ di un’ipotesi, come parametro e punto di riferimento, l’idea di ‘società emancipata’ e di ‘civiltà’, correlata a nozioni quali ragione e progresso?[66] Quali? Cosa può aggiungere (se non il conforto dell’utopia stessa) una teologia della speranza o Gesù quale fondamento del senso della storia?[67] E cos’altro può essere ancora una metodologia dell’indagine storica che si fonda sulla tipologia retorica delle grandi metafore – che, nella nuova funzione assunta, per esempio in Gramsci, anticipano, prefigurano una realtà posta alla fine della storia e ‘trascinano’ nel tempo un insieme di eventi (come la Riforma e la Rivoluzione francese) per riproporlo in altro tempo e in altri termini come possibile e auspicabile – o sulla tipologia semantica di simboli e allegorie, che intendono rappresentare, e non prefigurare, una verità che si nasconde nel presente, come per esempio in Benjamin?
Ma l’utopia, forma di un percorso di realizzazione di egemonia ideologica, in Gramsci, così come è forma di manifestazione del puro divino, in Benjamin, è in essi anche la necessaria condizione per la possibilità di attribuzione di un senso alla sequenza della storia. Essa, utopia, è condizione fondativa del senso storico in quella scienza storiografica; essa è il ‘postulato’ indimostrabile (ma non nel senso logico e matematico di ‘postulato’) di quella metodologia della storia.

Conservata nell’ideologia, attraverso le forme organizzative dell’egemonia, l’utopia è soggetta lungo la storia all’inquinamento degli eventi e al machiavellismo dell’agire politico, anche se il valore fondativo che essa contiene, in quanto condizione d’esistenza della finalizzazione storica, non ne resta minimamente condizionato e contaminato. Se in Benjamin, per esempio, come risulta dal suo carteggio con Scholem,[68] la via dell’utopia deve escludere le forme inquinanti dell’intimità con il sacro utopico (e di una conseguente e ostentata untuosità religiosa, pietistica, routiniera, retorica e priva di distanza e di tatto, da lui attribuita a Max Brod) – inquinate forme, queste, che un rapporto di alleanza dell’uomo con il dio della legge, della torah, invece non può che escludere in quanto forme piuttosto della comunione mistica – in altri invece, in Gramsci per esempio, quell’inquinamento dovrebbe alla fine escluderlo, ma allora come conseguenza della ‘traduzione’ storico-politica dell’escatologia cristiana circa il destino dell’uomo, come conseguenza della prefigurazione del tempo messianico della resurrezione e del ‘salto’ nel regno della libertà: per gli uni come necessità derivata dalla separatezza intrinseca dei soggetti della alleanza (dio e l’uomo), per gli altri come espressione della mistica comunione stessa, ne consegue un rafforzamento della tensione escatologica; l’utopia allora, che, dal lato della fondazione meta-storica, è principio e condizione, si risolve, dal lato della storia e dei soggetti che ne sono partecipi, in un ‘principio della speranza’, in quel principio che venne enunciato, fra gli altri, da Bloch.

C’è, dunque, un’estensione e un arricchimento della complessità problematica del simbolo e dell’allegoria (appartenenti, di per sé, alla tipologia semantica) in Benjamin, così come della metafora (che è della tipologia retorica) in Gramsci, nella funzione loro attribuita e assegnata ora di fondazione metodologica, nella determinazione del senso della storia.
L’estensione metafisico-teologica che simbolo-allegoria e metafora acquistano tramite la loro acquisita funzione metodologica, che le pone in rapporto con l’utopia, porta inevitabilmente alla psicanalisi della sofferenza privata. Perché? Perché il criterio di fondazione del senso della storia non perviene ad alcun risultato e l’utopia fallisce (teoreticamente e politicamente) nel suo compito di principio della speranza. Vediamo.
Come si potrebbe dire con un richiamo a Kafka, c’è una colpa commessa e quindi un giudizio di condanna comminata da un potere oscuro, un universo in cui libertà e serenità esistono in un’altra dimensione. L’alleanza dell’uomo con il dio della legge o l’intima comunione mistica con il dio della pietas e del perdono sono state rotte, sono interrotte ormai; la colpa metafisica, in sostanza, è il fallimento del compito assegnato, di dare senso alla storia o di trovare il suo senso; e quindi la condanna metafisica è l’interruzione del percorso all’utopia, la messa in discussione del suo valore postulativo, la perdita della speranza, la caduta nella disperazione. Perfino l’etno-antropologia, anche la sua versione di ‘sinistra’, quella del materialismo culturale,[69] anch’essa, nell’eredità di Boas, nell’impostazione multilineare della specificità di ogni cultura, esclude, in quanto arbitrario, ogni raffronto interculturale e quindi la possibilità di leggi generali rintracciabili nel percorso degli eventi storici. Quindi Alfred Lewis Kroeber può asserire[70] che la storia è ricondotta a solo prodotto di regolarità culturali, dove ‘cultura’[71] è l’insieme di tutte le attività e i prodotti non fisiologici delle personalità umane che non siano automaticamente riflessi o istintivi. La storia neppure qui ha, dunque, alcun disegno intrinseco e viene rinviata, per l’estrazione di un suo senso, alla cultura e a sue eventuali regolarità interne.
Gramsci e Benjamin sono fuori da questa consapevolezza del fallimento della funzione epistemologica dell’utopia? Apparentemente, si; ma oggettivamente (mettendoci, cioè, a confronto con i termini attuali dell’epistemologia della storia), no, non possono esserlo. È questo implicito (inconsapevole fors’anche) fallimento che ci obbliga (noi) ad assumere quel loro punto di vista (da cui noi stessi proveniamo!), entrare in esso per affrontarlo nei loro stessi termini (senza, noi questa volta, tenercene fuori).
La colpa e la condanna metafisica, che sembrano allignare nel fallimento dell’indagine sul senso della storia, la messa in discussione del valore postulativo dell’utopia in quanto faro di una finalità confrontabile con un valore naturale, e non certo storico, la perdita conseguente della speranza, la caduta nella disperazione, impongono una categoria alternativa all’utopia.
Progetto, senza utopia, è il lemma che è più corrispondente alla perdita di dimensione metafisico-fondativa e religiosa dell’utopia: più consono alla prospettiva di riduzione laica di quella dimensione criticamente o esplicitamente religiosa della finalità etica della storia; e tuttavia concetto piegato e convertito, già caduto dagli orizzonti del principio speranza, nello stato soggettivo della disperazione.

Di fronte alla colpa metafisica, come caduta nella parzialità, come perdita di fede e di speranza dell’utopia, come perdita di esperienza,[72] il problema è quello di riuscire ad interiorizzare, di rendere naturale, di condividere la limitatezza del pensiero laico, di convivere in essa e nella dimensione della disperazione e nel senso della condanna. È possibile?

Disperazione come premessa del suicidio? Con il termine ‘apoptosi’ si definisce il processo del suicidio cellulare programmato, sul cui meccanismo di funzionamento hanno gettato luce i lavori del biologo tedesco Guido Kroemer, specie dal ’99 in poi. Il processo è legato alla presenza di una particolare molecola, denominata con il suo acronimo AIF (apoptosis inducing factor), che, vitale per la sopravvivenza dei mitocondri cellulari, diventa invece letale se trasferita nel nucleo cellulare, in concomitanza con una permeabilizzazione della loro membrana esterna.
Ferma restando la distinzione di natura e cultura, ampiamente dimostrata e specialmente necessaria nell’etno-antropologia, ci sarebbe da chiedersi se e in che misura possa essere lecita una sorta di analogia con i processi di fondazione, di difesa e conservazione e poi di autodistruzione della società e delle sue forme, sotto l’azione di sue specifiche strutture.
Se c’è qualcosa che richiama alla mente le radici biologiche delle difese immunitarie dell’organismo, fra ‘gestazione’ delle cellule embrionali e apoptosi delle formazioni cancerogene, questo è il caso delle forme della difesa identitaria degli individui e della società nel suo insieme.
Difese immunitarie e identitarie, dunque. Difese che, se per un verso sono da perseguire e rafforzare nel funzionamento ad esse assegnato, per altro verso, tuttavia, occorre dire che quel loro funzionamento non ha ‘valore’ intrinseco: non è, cioè, ‘valore’, perché, più in generale, biologia e natura non hanno in sé alcun peso assiologico.
Il percorso dell’utopia, da un punto di vista psicologico anche del profondo, ha senza dubbio la funzione di difesa identitaria e immunitaria, individuabile come un’ideologia: quell’ideologia, che prende la forma dell’utopia e le forme del potere egemonico da quella esercitato.
Una critica alla radice metafisico-religiosa del pensiero utopico e la riduzione di questo ad una più ristretta, ma laica progettualità assume allora il senso di una restrizione e di un indebolimento, sia della difesa immunitaria del contesto organizzativo e culturale, sia della difesa identitaria della speculazione generatrice di utopia e dell’autostima investita in quella speculazione: in ultima analisi, anche l’avvio di un processo di apoptosi culturale e sociale.

Nella china dell’autodistruzione, importanza e peso innegabile assume –chiamiamola così – quella “reazione soggettiva” (di cui ci parla, per esempio, Azar Nafisi)[73] che è una forma di positiva controtendenza, nella negatività stessa. Senza entrare nel merito di particolari e soggiacenti interpretazioni dialettiche, interessa piuttosto il significato, il ruolo e la giustificazione che essa può assumere, di una risalita ottimistica nel pessimismo: ma, nel contesto di una crisi di senso della storia e di ricerca fondativa di un pensiero laico senza compromessi (insomma, senza ‘fede’ laica),[74] se la questione fosse compromissoria – attorno alle forme d’inquinamento che la fondazione metafisico-religiosa del senso della storia (nell’utopia) ha storicamente assunto o può assumere nel tempo – allora occorre dire che non c’è scampo: un punto di vista ottimistico non può che spegnersi assieme all’inconsistenza fondativa stessa del senso della storia e della sua utopia. È il pessimismo l’ambito di riflessione conseguente, diciamo: obbligatorio, rispetto alla crisi della storiografia e alla necessità di fondazione di una riflessione radicalmente laica.

S’è detto che la prospettiva è quella di interiorizzare e di convivere poi con la limitatezza del pensiero laico, nella dimensione di disperazione e di senso di condanna che comporta la perdita dell’utopia.
La cultura occidentale, e in essa valga l’esempio di Ricoeur,[75] si direbbe che assegni un valore assoluto alla ricerca, alla costituzione e alla conservazione dell’identità propria, sia quella individuale (la ‘analiticità’ dell’io penso kantiano) che quella collettiva delle aggregazioni sociali (nazionali, religiose, partitiche, ecc). Occorre cogliere oggi, non solo la caduta, ma il limite di valore di queste affermazioni, per poter andare al superamento dell’ipostatizzazione dell’identità individuale e collettiva e dare un definitivo scossone a quel pilastro della psicoanalisi che prende il nome tracotante di autostima, nell’orizzonte di un cosiddetto ‘principio di realtà’. Nella prospettiva di un pensiero effettivamente laico vanno messi in discussione, nella loro qualità di valori, la fondazione e la conservazione dell’identità individuale e collettiva, che rappresentano una fittizia costruzione del senso della storia propria e, quindi, dell’utopia come proiezione e protezione.
Se la grande fragilità dell’identità è conseguenza diretta, come ci ricorda ancora Ricoeur, della mancanza di unità dovuta alla temporalità del suo costituirsi e conservarsi, affidata alla memoria e quindi alla storia individuale e alla rappresentazione futura di sé, questa precarietà comporta essenzialmente lo sforzo della sua continua ricostituzione conservativa(che, come è stato sottolineato, rinvia alle freudiane operazioni del ricordare, del ripetere e del rielaborare),[76] ma è dovuta anche al venir meno della funzione fondativa di quella identità, da individuare in ultima analisi nell’utopia, come principio di senso della storia, ivi compresa la storia propria.
Sul piano della fenomenologia storica, questo vale per la memoria collettiva (dei popoli, dei fedeli, e dei militanti), aggredita — s’è detto — dalle ossessioni e dalle ansie prodotte dalle umiliazioni e dalle sconfitte subite, non ricomposte, non rielaborate in una ulteriore unità di immagine di sé e di una propria superiore unità storica, capaci di rigenerare altra e diversa autostima, anche collettiva, sociale e culturale. La memoria, possiamo dire, è il tempo e lo spazio di quelle identità.
Non che una terapia analitica possa davvero costituire, per il singolo, il collante agli strappi che la storia lascia nell’unità di coscienza (la riconduzione ad un ordine costituito, più che una rimarginazione e una guarigione, è piuttosto un rabberciamento, peggiore a volte delle cause stesse del malessere): ma nella coscienza collettiva, in effetti — e si veda ancora il testo citato — non c’è addirittura terapia analitica possibile.
Solo nell’accettazione del principio di realtà, stando a Freud, può essere superato quello stato di lutto, che è il trattamento emotivo — legato ancora una volta alla memoria — della perdita dell’oggetto (d’amore o di odio), che è necessario alla ricomposizione e alla rielaborazione dell’unità identitaria (e, per questo, occorre rompere i legami libidici del principio di piacere e pagare tale prezzo per superare — o superando così — gli insorgenti stati di malinconia, di depressione e perdita dell’autostima). Il lutto, questa mancata rielaborazione dell’unità e della stima di sé, si interiorizza in ‘separatezza’ e odio per l’altro (che diventa pericolo per la propria identità, individuale e collettiva, e termine di scontro di antropologie, di modi di vita e di cultura, di religione, di ideologia politica): una separatezza, che si oggettiva (ideologia inconsapevole) in opposizione all’ideologia altrui. Determinante in tal senso si manifesta la risoluzione della chiusura culturale e linguistica, l’impedimento nel riconoscimento dell’altro e la crescita nella difficoltà della traduzione, l’esigenza di ‘cancellare’, con la propria, la memoria di ogni ‘altro’. Come il linguaggio richiede, per la sua traducibilità, il riconoscimento della cultura diversa, anche il riconoscimento dell’individuo-altro genera l’ostacolo come difesa e rigetto insieme (l’invidia, per esempio, l’intolleranza, la rivalità e il principio del capro espiatorio come esito stesso della rivalità).[77]
L’ideologia, quale principio di etica sociale (corrispettivo della morale individuale, del principio, cioè, di individuale dover essere), nei fenomeni di manipolazione collettiva, come modo d’essere di rivendicazione identitaria, come sforzo di autoaffermazione e di unità, compartecipe della competizione delle ideologie, cancella la memoria della sua collocazione spazio-temporale, ne resta fuori e, nella lizza, diventa denuncia di quella avversaria, proprio in quanto ideologia: si è così posta e affermata come (mia – nostra) personale utopia. Oggettivata in un attribuito senso della storia, in un’utopia, l’ideologia si piega alla violenza del sacro, intrinseca alla fondazione di quel senso.
Il principio freudiano di realtà esiste quale fenomeno naturale: quindi opporvisi non ha significato se non in una prassi strategica soggettiva, che combatte il lutto radicalizzando la stima di sé e l’identità soggettiva. Ma il principio di realtà, proprio come principio, è anche la raffigurazione freudiana dell’esito terapeutico della psicanalisi, che normalizza; è principio di normalizzazione, prodotto dalla cultura occidentale. Questo il limite freudiano: la ‘realtà’ del principio è quella della sua stessa cultura, quella data.

Di fronte alla quasi-infinità di filosofie, di Weltanschauungen e di antropologie, esplicite o implicite nel pensiero e nell’agire dell’umanità, di fronte ai due compiti di assoluta urgenza che la società dovrebbe pur vedere, ma non intravede ancora quali scadenze primarie dell’agire – il blocco della crescita senza più controllo delle nascite e il rovesciamento dell’assioma di uno sviluppo economico illimitato – : di fronte a tali immani obiettivi (dai quali dovrebbero a cascata derivare, come pure conseguenze, tutti i programmi politici, sociali e culturali): di fronte a tale quasi-infinità di posizioni individuali e di gruppi, siamo capaci ancora di convivere in questo stato di cose e miracolosamente trovare la via unitaria che consenta la soluzione? La necessità di una politica ‘malthusiana’ di contenimento delle nascite, che vedrà di fronte a sé lo sconvolgimento del tradizionale ruolo della maternità e la sua riduzione alla marginalità nella cultura della società – la nuova versione che si prospetta del classico modello macro-economico è paradossalmente quella in cui, anziché produrre grano per una sopravvivenza tramite grano, il ciclo economico e il destino umano sarebbe di produzione di vita umana per una sopravvivenza nell’antropofagia – : la necessità poi di una inversione radicale dell’assioma di sviluppo economico (come crescita sia quantitativa: growth, sia qualitativa: development), per una politica di ‘stagnazione’ invece, che possa essere compatibile con i pur ben noti ‘limiti dello sviluppo’: queste due necessità sono anche due parametri indipendenti (la soluzione dell’uno non ‘risolve’ infatti l’equazione, che contiene ancora l’incognita dell’altro); dipendenti tra loro, invece, soltanto nella chimera di un’economia a sviluppo illimitato, dove alla crescita della popolazione si ripara con un’economia in crescita, e dove questa, per converso, consente una illimitata crescita della popolazione.

La categoria della non-violenza assume una connotazione assai complessa. Attorno ad essa si stringono i concetti di una progettualità laica, lontana dalla sostanziale radice metafisico-religiosa dell’utopia e dalla necessaria ideologia egemonizzante che la rende e in cui si rende possibile. Siamo alla ricerca del senso della storia, ma non possiamo prendere le scorciatoie dell’allegoria e delle grandi metafore. Se la speranza si spegne nella disperazione, l’escatologia delle alleanze e delle mistiche intimità con il dio della trascendenza non servono a cambiare i termini del problema epistemologico. La colpa metafisica del fallimento registrato nel compito del senso della storia e la conseguente condanna metafisica alla perdita dell’utopia, alla caduta nella disperazione, appartengono ancora al pensiero e al linguaggio della loro provenienza. Liberarsene equivale all’acquisizione della capacità di convivere nella limitatezza di un pensiero e di un linguaggio laico: ancora tutta da realizzare.

Fini storici e fini trascendenti: quali problemi pone la differenza tra finitezza del fine e finalità trascendente? Diritto, nell’orizzonte del concreto deve voler dire diritto senza retrostante etica fondativa: diritto nel contratto puro. Ma, anche quando pensato nel puro e semplice contratto, il diritto pur sempre resta fondato sulla violenza (indipendentemente da quale sia il rapporto mezzo-fine).
Il fine trascendente, proprio dell’utopia, elimina l’orizzonte del diritto come contenitore di un quale che sia contenuto legislativo; quel fine conserva soltanto il contenuto, in particolare il solo contenuto della ‘giustizia’ (il contenuto del diritto giusto), al di là dell’origine violenta, nella quale si pone e si conserva il diritto stesso. Ma la trascendenza della giustizia dev’essere pagata anche con una presunta chiarezza (ed una reale oscurità) di percorso del senso storico che l’avvicina.
Se il fine si pone nell’orizzonte finito della temporalità, quindi entro un progetto vissuto al di fuori delle utopie, il diritto è storico e quindi, se ha una data forma contenente, il suo contenuto non ha altro ‘valore’ che quello soggetto all’andamento della cieca storia. Il terreno della finitezza è dunque gius-positivo, dove la violenza è prodotto storico; e, non esistendo fini incondizionati, la correttezza (giustizia) dei fini storicamente dati è garantita solo da una ‘legittimità’ dei mezzi con cui raggiungerla.
Ma da dove viene questa ‘legittimità’? Non da un fondamento ontologico, né da una decidibilità storica (di una storia che in sé non ha ‘senso’), ma solo dall’arbitrarietà del giudizio storico (soggettivo) sul mezzo. È allora solo la ‘critica della violenza’ a decidere, di volta in volta, negativamente, la strategia storica del mezzo non violento.

A COSTO DI RADICALIZZARE: QUESTIONI TEOLOGICHE E TRASPOSIZIONI LAICHE.

La fede è una forma di ‘sapere’, il lato soggettivo di un rapporto: forma possibile (ma non necessaria) dell‘appropriazione’ dell’oggetto di quel sapere. Appropriazione poi possibile, perché conducibile a termine soltanto per il tramite di quell’aiuto che è stato soprattutto chiamato ‘grazia’. La grazia è allora condizione fondativa, senza di cui la fede stessa, come evento o percorso storico di una rivelazione, non ha né esistenza possibile, né senso. La grazia è la potenza della rivelazione, per il cui tramite è poi atto stesso. La grazia è dio stesso in quanto visto ‘nel rapporto’ con l’uomo: dio-relazione, il dio dell’alleanza dell’ebraismo, il dio della comunione nel cristianesimo; non dio in quanto ente stesso, assolutamente separato. Questa funzione della grazia, come è noto, è la tesi radicale di S. Agostino (e poi di Lutero), invano contestata dalla teologia di Pelagio e del pelagianesimo vecchio e nuovo, in molteplici forme sostenitori di una capacità d’autosalvezza dell’uomo, indipendentemente dal concorso e dalla partecipazione ad essa della grazia, oggetto della fede: insomma, indipendentemente da dio.
La fede, se ‘possibile’ (dunque: se atto libero soggettivo), stando a S. Agostino, è pertanto anche necessariamente e indissolubilmente relazionata (per così dire: incatenata) al suo oggetto, proprio nell’atto stesso di quel ‘sapere’ speciale che essa è. Da che cosa dipende tutto questo, se non dal fatto che il sapere deve ovviamente avere l’oggetto a cui rivolgere la sua attenzione? Senza di esso è la relazione stessa che si dissolve e, con questa, la fede. Libertà e necessità insieme: perché? Perché, nella relazione, determinante è il concorso della rivelazione, che non è certo necessariamente data dal lato del soggetto, ma, se – e una volta – data, ha allora, da parte dell’oggetto, un potere necessitante: un potere di incorporazione del soggetto nella relazione propria del sapere e un potere di sigillo della relazione stessa, ormai in atto.
Ma cos’è, allora, la grazia, che consente e rende possibile quel sapere, che altrimenti non c’è? Quale rapporto tra grazia e rivelazione? Quest’ultima, come manifestazione, è lo strumento della grazia (del dio-relazione), è il suo modo di darsi al soggetto della fede: la grazia, in altri termini, non è la rivelazione stessa, ma la verità-condizione, in potenza (del dio-ente), che rivelandosi, si fa verità in atto, cioè rivelata appunto, come corrispettivo oggettivo della relazione; se la grazia fosse rivelazione stessa, allora non sarebbe mai più possibile sottrarsi ad essa e la fede non sarebbe più possibilità, ma già e sempre necessità; la rivelazione, come strumento della attuazione della grazia, è un evento che si dà nella storia e nella sua realtà mondana. La fede è solo possibile perché, come si è detto, la grazia non è la verità stessa già in atto, ma la sua ‘potenza’ di determinazione sul soggetto: è condizione e fondamento del percorso del soggetto ad essa stessa: ha immanente il percorso storico della sua attuazione da parte del soggetto. Quindi una ‘potenza’: assoluta in quanto condizione fondativa, ma relativa in quanto storicizzata e soggettivizzata. Potenza assoluta è anche violenza assoluta: assoluta, solo per chi ha la fede; non per chi ne è privo. L’assenso di fede è infatti una dedizione e un ‘impegno’ totale.
Sulla rivelazione s’è detto che è potere di incorporazione del soggetto nella relazione e sigillo della relazione stessa, in atto. Si realizza l’alleanza del dio (ebraico) con il suo popolo, la comunione (del cattolico) con il suo dio. La rivelazione è il disvelamento, anche, della assoluta potenza, dell’assoluto potere dell’oggetto della relazione di fede.
Il corrispettivo oggettivo della fede è ciò a cui essa si rivolge, cioè: è la verità fondativa, rivelata (secondo la teologia, per via soprannaturale) e quindi è l’autorità di cui è investita, che deriva al soggetto di fede da questa rivelazione. La fede ‘accoglie’ la rivelazione e, in essa, la fondazione di verità.
L’autorità è oggettivamente una imposizione e soggettivamente il risultato di questa imposizione. La verità si impone in termini assoluti (tramite la fede) e in questo senso non è libera ma è la coazione, violenta quindi quanto una imposizione. L’autorità che investe la verità rivelata è assoluta e si impone: in questo senso preciso e generale è autorità coattiva e coatta, violentante e violenta: l’imposizione, che costringe la libera volontà soggettiva, non può che essere un atto violento, nella misura in cui tale atto è impositore. Che il soggetto della fede riceva quest’atto con gioia è altra questione, inerente alla psicologia della fede: è atto di sottomissione e obbedienza.[78]

L’ideologia è un modo d’essere della fede, anch’essa forma di ‘sapere’, proiettata su un oggetto utopico, la cui realizzazione è data storicamente attraverso lo strumento dell’egemonia. Corrispettivamente l’utopia è la condizione fondativa dell’ideologia, il supporto che dà esistenza e senso all’ideologia. Analogamente al modo d’essere oggettivo della ‘grazia’, l’utopia, nella sua oggettività ontologica (sebbene storicamente raggiunta nella costruzione intellettuale di un pensiero speculativo e raggiunta nel percorso di realizzazione egemonica immanente a quel pensiero) si rivela al soggetto dell’ideologia come il suo oggetto (ente): oggetto da raggiungere e da esplicitare; e a lui si rivela, possiamo aggiungere, proprio perché ancora ‘lontano’ e ‘inesplicato’, un dover essere e un non essere ancora, che incorpora nella relazione il soggetto di quell’atto di fede che si compendia nel così sarà.
La possibilità, la libera scelta, di un’ideologia si contrappone e convive insieme alla necessità del suo oggetto: quell’orizzonte dell’utopia, senza il quale la relazione ideologica collassa assieme ai suoi stessi termini.
Si è detto che l’utopia ‘si rivela’: insomma, che la ‘rivelazione’ è il concorso dato al soggetto, sotto forma di evento singolo o come percorso storico della fede ideologica, da parte dell’oggetto utopico; la ‘rivelazione’ altro non è che la dimensione necessitante, l’irresistibile attrazione che pone in moto la fede e che la fonda, il potere incorporante del soggetto ideologizzato e il potere ‘di sigillo’ della relazione, ora militante e in atto. L’utopia si rivela proprio in quanto dover essere, proprio nel suo non essere ancora, proprio trasformandosi nel soggettivo e volontaristico ‘così sarà’. In una parola sola: la rivelazione è la promessa rivoluzionaria, la salvezza dunque, la grazia, che ‘consente’ la fede. La rivelazione, come manifestazione dell’ente-utopia, come strumento salvifico, come promessa e grazia, è il modo di darsi al soggetto ideologizzato: è la verità in atto della condizione potenziale dell’ente-utopia. Un’ideologia è possibile solo perché l’utopia non è verità in atto, ma pura potenza, condizione e fondamento del percorso ad essa. La fede ideologica ‘accoglie’, fa sua, la promessa rivoluzionaria e, in essa, la fondazione propria dell’utopia. La verità ‘accolta’ si impone in termini assoluti tramite la fede ideologica: è autorità coattiva: ha la violenza della sua imposizione, che realizza la promessa e instaura un nuovo assetto rivoluzionario.

La chiesa, ma anche il partito, sono il luogo sociale storico della fede-ideologia: luogo, che esiste solo in funzione di questa; luogo di adesione assoluta. La critica del suo oggetto (la fonte della grazia o l’utopia) pone eo ipso fuori del rapporto di un sapere teologico-teleologico. La chiesa e così il partito sono strumenti di organizzazione pratica, ma anche di fede e di ideologia, nella elaborazione del sacerdozio (in quanto rappresentazione relazionale del divino all’umano, e viceversa) e di una intellettualità integrale e totalitaria (in quanto mediazione di utopia e militanza). Chiesa e partito hanno come scopo patente o ideale latente quello di incorporare in sé ogni altra forma e luogo di fede (nel tempo delle attese messianiche e dei percorsi storici dell’utopia, tramite evangelizzazioni e conversioni, ecumenismi missionari e propagande di fede) e di farsi unica chiesa o partito unico: chiesa totale o partito totalitario. Per entrambi vale il principio: extra ecclesiam nulla salus.

PSICOLOGIA DELL’ATTESA

Se simbolo (allegoria) e metafora assumono in Benjamin e in Gramsci una inedita funzione epistemologica, al di là del loro significato primario (quello, come allarme, immanente al ‘momento’, ma sintesi insieme di tutta la storia dell’umanità; questa, invece, come prefigurazione che ci viene dal passato e analitica anticipazione di ciò che si pone alla fine della storia), tuttavia la storia, che simbolo e metafora avrebbero dovuto spiegare, viene compresa e risolta semplicemente e niente di meno che tramite una presunta ‘razionalità’ (in quanto visione e percorso storico consapevole) del dover essere (quello che si raggiungerebbe e si compirebbe nell’utopia realizzata).
Simbolo e metafora sono i modi di una pseudo-epistemologia che si articola attraverso una psicologia dell’attesa e della speranza, una psicologia del ‘così sarà’ a fronte di una ontologia della lontananza, del ‘non ancora’. Attesa e speranza, dove si vede anche come tali termini siano fra loro connessi (Erwartung, expectancy, expectation, l’uno, Hoffnung, hope e ancora expectation, l’altro), anticipazioni indeterminate di un’esperienza futura ignota (non suffragata da un’ipotesi teorica), caricata sia di ‘senso’ che di ‘tensione d’attesa’, in cui le forme della soggettiva ‘disposizione’ vanno dalla pazienza alla fiducia, alla speranza appunto, all’euforia, al dubbio, al timore, all’apprensione, alla disperazione.[79]
L’attesa e la tensione connessa assumono dimensione escatologica: l’utopia viene ad essere garanzia soggettiva e oggettiva di un senso della storia, della sua ‘conclusione’ (per lo meno quella della nostra storia, di quella a noi più o meno nota), è responsabile di quella ‘chiusura’, che in effetti potrebbe dare senso; indifferente ai suoi modi d’essere annunciati (anticipati, a fronte di un senso che altrimenti non è dato), l’utopia è insieme realizzazione di una fede (di una egemonia ideologica), e forma del percorso di quella realizzazione tentata: ed è insieme condizione fondativa, postulazione indimostrabile di sé (insomma: soltanto faro di una finalità, confrontabile con un valore ‘naturale’ – non storico – e, a differenza dei postulati delle scienze geometriche o degli assiomi delle scienze logiche, non premessa di dimostrazione alcuna); utopia, forma di manifestazione di qualcosa: puro divino o società nuova, emancipata, civiltà di ragione e di progresso. Nessun inquinamento storico lungo il percorso di avvicinamento all’utopia può scalfire il suo potere fondativo.
Ma se, di quelle forme indicate della ‘disposizione’ soggettiva, la fondamentale, quella dell’attesa storica (anche attiva e dinamica) nella realizzazione utopica, è la speranza, ad essa corrisponde, a fronte di una realizzazione mancata, in primo luogo la disperazione.
La tensione e l’attesa escatologica (dove l’utopia è resurrezione e redenzione, cioè, teologicamente, vittoria sul peccato e sulla morte, seconda e definitiva venuta del messia, richiamo, quindi, all’urgenza della scelta e della decisione di conversione di fede – come in Bultmann, per esempio – e, laicamente, è civiltà di ragione e società nuova): entrambe, tensione e attesa, sono sofferenza del tempo ‘del rinvio’ necessario al compimento del percorso storico; sono la sofferenza di quel messianesimo e di quel missionarismo ecumenico, avviato sempre sul crinale della possibile irraggiungibilità del dio, della parusia – come ci dice Beckett, per esempio –; la sofferenza dell’atteso necessario ritorno-speranza nel destino dell’uomo. Ma questa sofferenza non è ancora la disperazione del suo raggiungimento mancato.
La rifondazione escatologica della storia (paragonabile alla seconda venuta del messia) ‘si impone’ ex abrupto, violentemente, annullando il passato storico e ponendo le basi di un nuovo sistema di regole, della nuova legge (di una sua nuova forma legale) che si fonderà sulcontenuto dell’utopia (ancora senza forma alcuna), a partire da esso (cioè: da giustizia o uguaglianza o libertà, da resurrezione o redenzione o immortalità.).
Il fallimento, invece, dell’utopia, nel suo compito di principio della speranza e di percorso della fede militante, scivola nella dimensione della disperazione sofferente (privata e collettiva) e conduce alla necessità di gettare lo sguardo sulla psicanalisi. Nella caduta del pensiero utopistico c’è sia un’oggettività del pessimismo, sia la possibilità soggettiva di un’antropologia pessimistica.

ANCORA SULLA COLPA E LA CONDANNA

Dov’è il fatto della colpa commessa? Cosa vuol dire che si tratta di colpa metafisica? Da dove viene il giudizio di condanna comminata? Può esserci condanna metafisica?
Dev’essere ben chiaro che qui il concetto di ‘colpa’ non va inteso nel senso metaforico, traslato, della retorica, o nel senso di un semantico gioco allegorico: se la fede (quando è data) e, con essa, anche la fede della militanza politica, si pone a fronte della grazia, che la rende possibile e la fonda, e se quest’ultima è dio stesso in quanto ‘rapporto’ di un’alleanza (quindi, dio fondatore e datore della ‘legge’) o in quanto ‘rapporto’ di una mistica comunione (e quindi, ancora una volta, dio fondatore e datore di ‘caritas’-amore), allora la rottura e il rifiuto di quel rapporto è una infrazione, è ribellione alla legge, è rifiuto della ‘caritas’, è violazione della legge dell’amore e, dunque, presa di ‘distanza’, approfondimento della lontananza dal dio stesso: è colpa realmente commessa. E parimenti, se il rapporto che la fede militante della politica ha con l’utopia, che la fonda e la fa vivere come promessa rivoluzionaria, si spezza in un rifiuto, nella ribellione, nel rinvio sine die del giorno dell’inveramento rivoluzionario dell’utopia stessa, allora questa presa di distanza ha la colpa effettiva, realmente commessa, del fallimento del compito, la colpa del tradimento, e non semplice metafora, non allegoria. Il ‘peccato’ (nella sua ‘oggettività’, rispetto alla soggettività – con esso coinvolta – della ‘colpa’) è storico, ma, nell’ambito della laicità, non è anche peccato ‘originale’, biblico, ma metafisico invece, filosofico, in quanto ha messo in discussione e contesta l’atto fondativo della fede e della militanza stessa. L’infrazione, che è sempre individuale e coinvolge pertanto l’impegno morale, si dilata in quel rapporto d’alleanza o di comunione, assume dimensione sociale, e quindi rilevanza etica, in quanto tradisce e mina la forza della chiesa, così come del partito, nel loro scopo di unificazione e di omologazione della fede, di totalizzazione dell’organizzazione (cioè: del luogo dell’adesione); si estende socialmente e s’ingrandisce culturalmente: e chiede, come sempre, riti e sacrifici di espiazione.
Il peccato, interiorizzato come colpa (psicologicamente: ‘senso di colpa’), colpisce la coscienza morale, cioè il senso di ‘responsabilità’, che sta a fronte della sua effettività oggettiva, a fronte dell’infrazione della legge e del suo ordine (etico-sociale). Senso di colpa, come stato che si lega all’azione o alla motivazione (o più semplicemente al senso di inautenticità), tutti vissuti come riprovevoli e quindi condannabili e punibili, ma già di per sé generatori di nevrosi ossessive, nel conflitto dominante del soggetto singolo di fronte al dio dell’utopia (nel conflitto, cioè, di ‘io’ e ‘super-io’): nevrosi, accompagnate da diminuzione dell’autostima, da stati di malinconia e di lutto.
Riti e sacrifici di espiazione, dunque, già nell’ambito comportamentale e introiettivo degli stati del soggetto. La condanna del dio, ora separato, la condanna che viene dall’universo – ormai altro – dell’utopia è già tutta, interamente, data nell’interruzione del dialogo, nella rottura salvifica dell’alleanza, nella perdita del percorso all’utopico non-luogo per eccellenza.
La riduzione, quindi, dell’utopia a laico ‘progetto’, senza alcuno sbocco escatologico, viene vissuta come perdita: la critica della dimensione religiosa, rintracciata nella finalità etica della storia, la consapevolezza dell’insignificanza di quella finalità, quanto al senso della storia – raggiunta e conquistata nel pensiero laico – si accompagna alla nevrosi del conflitto fra l’identitario ‘io’ individuale ed il ‘super-io’, con le sue radici ben ficcate in una cultura e nella ricomposizione sociale: nevrosi, che nasce dalla conflittualità implicita nella rottura del rapporto costitutivo dell’identità e del suo potere significante; nevrosi, che si genera nel dissesto, che viene a manifestarsi, tra il bisogno di ricostruzione soggettiva del senso della storia e di collocazione dell’io in questa, e, a fronte di tale bisogno, la normalizzazione perseguita dalla cultura e riflessa nel livello raggiunto dell’amalgama sociale; nevrosi, insomma, della solitudine del soggetto, di fronte alla compattezza conservativa della collettività; nevrosi, infine, per l’accumulazione di violenza, nel circolo prodotto di frustrazione e di rivalsa.
L’orizzonte temporale del progetto, oltre che perdita del finalismo etico della storia, è anche un azzeramento del senso allegorico e metaforico della storia, è progetto di una nuova inizializzazione del senso, sulla base della costruzione di una epistemologia storiografica che contenga il progetto stesso, cioè aperta alla previsione scientifica e quindi allo sguardo e al controllo delle ipotesi sul futuro: nonostante la ‘perdita’ pagata e la nevrosi che l’accompagna. È l’ordine della memoria che va rimesso in discussione e, con questo, non solo il tempo, ma anche lo spazio dell’identità individuale e collettiva: la funzione mnestica sostenuta dalla ripetizione e dalla rielaborazione dell’esperienza; la memoria, insomma, non è soltanto ricordo del passato, reminiscenza, ma – in essa – anticipazione e proiezione nel futuro: riapprendimento, riconoscimento, ricostruzione e rielaborazione futuribile, per interferenza (ed altro ancora) con il materiale memorizzato.
La perdita dell’oggetto utopico, la progettualità laica, apre (nella nevrosi e pur nella ‘disperazione’ e nella mancanza di ‘oggettiva’ speranza) alla rielaborazione emotiva della identità e alla critica della rivalsa dell’identità in quanto valore; ed insieme chiude con ciò alla frustrazione e alla violenza della intraducibilità culturale. Accanto alla verticalità del dover essere morale, all’ascesa lungo la strada dell’utopia: accanto all’orizzontalità della tensione etico-utopica: accanto a metafisica e psicologia di onnipotenza dell’io: in questa doppia perdita, nell’orizzonte laico si configura forse un’altra dimensionalità e si spiega anche perché, invece, la fede e l’ideologia preferiscano piegarsi alla violenza del sacro.

 

[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, I-IV, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977.
[2] A. Gramsci, L’ordine nuovo, 1919-1920, Einaudi, Torino 1955, 31.
[3] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1999, 5-30.
[4] Dove già vale la relazione ‘forza versus diritto’ (che qui incontriamo come centrale) e l’inversa ‘obbedienza versusdovere’. [5] Condurre, guidare, prevalere, dominare, imporsi, e poi: potenza, supremazia, superiorità, direzione, predominio, dominazione, sono i termini che vi ricorrono.
[6] Porre l’utopia nella storia, piuttosto che nell’al di là, non cambia nulla, perché è pur sempre ‘anticipazione’ esistente solo alla fine, come fine della storia.
[7] Il termine ‘laicismo’ (implicitamente definito dal contesto generale di questo scritto) lascia qui intendere che esso non può coesistere con quei termini che sono relativi alla fede religiosa: se si è laici non si è ‘credenti’ in una ‘fede’, in particolare ‘religiosa’; il che non significa che ‘laicismo’ presupponga e imponga di non avere ‘certezze razionali’, come tali distinte da quelle di fede. ‘Laicismo’ è una Weltanschauung non religiosa, fondata su ipotesi razionali; ‘laicismo’ non è pertanto necessario sinonimo di ‘relativismo’. Invece, il suo anti-integralismo esprime un atteggiamento anti-dogmatico, conforme alle regole della razionalità e della riflessione epistemologica.
Tolleranza e pluralismo sono termini che riguardano più il concetto di ‘laicità’, in quanto atteggiamento pratico, sociale e politico, che non quello di ‘laicismo’, in quanto punto di vista teorico: il laicismo non è di per sé pluralista e tollerante in sede teorica; la ‘laicità’ è conforme ad una visione di coesistenza delle culture, di necessaria neutralità delle organizzazioni politico-statuali della convivenza civile, mentre il ‘laicismo’, se certo contiene quella visione di ‘laicità’, come posizione teorica poi (soggettiva, individuale) non contiene in sé implicitamente un punto di vista anti-religioso, cioè ‘politicamente’ ateo.
Il sostantivo e l’aggettivo ‘laico’ (storicamente associati al significato di ‘non appartenente al clero’ e ‘civile’) non rivelano in sé la distinzione di ‘laicismo’ e ‘laicità’ e restano, in tal senso, equivoci, se non protetti da un contesto chiarificatore.
[8] Su tutta la questione fin qui considerata, rinvio al mio Un altro Gramsci?, file distribuito per e-mail ai membri dell’IGS, società gramsciana, sezione romana, e in corso di inserimento nel sito www.albertogianquinto.it. Cfr. ‘La storia’. I) Il metodo storiografico e la grande metafora: Riforma e Rinascimento. II) Confronto con Benjamin: l’allegoria.
[9] Q. 715.
[10] Q. 1490.
[11] Q. 1455.
[12] Q. 1488.
[13] Q. 946-7.
[14] Q. 1947-8.
[15] Sulla questione, B. Menke, Die “Kritik der Gewalt” in der Lektüre Derridas, in Garber/Rehm (Hrg), Global Benjamin, Internationaler Walter Banjamin-Kongreß 1992, München, Wilhelm Fink Verlag 1999, Bd. III, 1671-1690; cfr. 1678 e le sue riflessioni sulle posizioni di Derrida.
[16] In proposito, Q. 691.
[17] Q. 1596.
[18] Ma non sotto la forma dell’utopia, che, come la ‘pura violenza divina’ , in Benjamin, non crea diritto, ma è soltanto ideale di giustizia, contenuto utopico, l’ideale del diritto stesso.
[19] Rinvio anche qui al citato Un altro Gramsci? ‘La teoria e la sua organizzazione’. In particolare, III) Giacobinismo e rivoluzione, per esempio. E poi, ‘Le classi e il lavoro’. Americanismo e fordismo.
[20] Quando Gramsci critica le forme della prassi giacobina, in tanto è in grado di farlo in quanto ha già elaborato l’altra forma, dell’egemonia leninista.
[21] Cfr. in proposito Q. 1620, 1596, 1235.
[22] Inversione, dunque, del principio gius-naturalistico: a differenza del gius-positivismo, dove il mezzo legittima il fine e con ciò lo garantisce.
[23] Su tutto ciò, in particolare cfr. Q. 1565 sg. e 763, sullo Stato gendarme-guardiano notturno.
[24] Su questo argomento, il riferimento va a Q. 10, § 48, Q. 11, § 30 e Q. 2, § 134.
[25] Si tratta, in sostanza, di un percorso asintotico.
[26] W. Benjamin, op. cit., 29.
[27] In tal senso, si indebolisce come violenza fondativa, anche se e quando il diritto conservato è diritto ingiusto, diritto del più forte.
[28] Q. 802.
[29] Q. 1228-29.
[30] Su questi si veda anche la posizione di Benjamin, cit., 10 sgg.
[31] Q. 122-23.
[32] Q. 1212.
[33] Q. 1631.
[34] Cfr. più oltre, al sottotitolo corrispondente. Cfr. Benjamin, cit., 24-28 e 30.
[35] Benjamin, cit, 10.
[36] Ivi, p. 11.
[37] Per la posizione di Gramsci sulla pena di morte, valga per tutti ON., 270-71.
[38] Benjamin, cit., 12.
[39] Benjamin, cit., 6-9.
[40] Benjamin, cit., 10-11.
[41] Benjamin, cit., 14-15.
[42] Benjamin, cit., 16.
[43] Benjamin, cit., 20-22.
[44] Q. 867 e ON., 34-48 soprattutto.
[45] Ma anche il ‘contenuto’ di giustizia.
[46] Benjamin, cit., 26.
[47] Benjamin, cit., 24-28.
[48] Benjamin, cit., 30.
[49] Questo aspetto del problema non è posto da Benjamin, che riconduce il ‘contratto sociale’ ancora una volta alla sua antecedente violenza fondativa.
[50] Cfr. B. Menke, Die “Kritik der Gewalt” in der Lektüre Derridas, cit., 1673.
[51] B. Menke, cit., 1678.
[52] Sottolinea Gramsci che in Machiavelli «[…] la politica è un’attività autonoma che suoi principii e leggi diverse da quelle della morale e della religione […]» (Q. 1599); una cosa è dunque il principe in quanto ‘partito politico, potere di fatto che esercita la funzione egemonica (Q. 662), colui che fa «educazione politica […] positiva» riconoscendo «necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini» (Q. 1600), altra cosa è il principe in quanto utopia del partito egemone, sebbene (Q. 656-662) in sé non sia un’utopia, ma soggetto «libero di azione politica immediata», arte di governare e procurarsi il consenso degli uomini (cfr. anche Q. 1480, sul concetto di ‘virtù’ in Machiavelli, come capacità, abilità, industria dell’uomo del Rinascimento). [53] Loc. cit.
[54] Sul tema, Q. 2046 e 1560. Si possono anche vedere i miei: Laicità e utopia, in www.albertogianquinto.it; Per un concetto laico di impegno, in loc. cit.; Utopia e laicismo: da una discussione, in loc. cit.
[55] Benjamin, cit., 18.
[56] Sulla differenza tra sciopero politico e sciopero proletario, v. sopra, p. 8.
[57] Benjamin, cit., 21.
[58] Benjamin, cit., 19.
[59] Esempio di contratto, riporta Benjamin, cit., 17, sono i parlamenti.
[60] Benjamin, cit., 29.
[61] Cfr. B. Manke, cit., 1673.
[62] Benjamin, cit., 22. Anche Gramsci, Q. 1583-85 in particolare, dove, a proposito del ‘rapporto di forza’, distinguendo rapporti di forze sociali, politiche e militari, nel secondo rapporto, come fonte di combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, accanto alla religione soprattutto, indica la diplomazia di carriera, associata alla categoria degli ‘intellettuali’, la cui funzione è quella di mediare ed escogitare compromessi e vie d’uscita.
[63] L’argomento della crisi d’identità del terrorista come ricerca di alternativa, da contrapporre alle responsabilità del sistema, è stato avanzato, se non sbaglio, dal giornalista Khaled Fouad Allam.
[64] Cfr. di Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato e altri scritti, Einaudi, Torino 1967.
[65] Si veda il mio saggio in ‘Il cannocchiale’, 1, 2003, Storia, scienza e creatività, con alcune riflessioni di critica a Popper e, insieme, di autocritica al mio Storia e scienza, Marzorati, Milano 1985.
[66] Basterebbe pensare per questo ai programmi della scuola di Francoforte.
[67] Cfr. p. es., Ernst Bloch, Walter Benjamin e, soprattutto, Jürgen Moltmann, autore della cosiddetta “trilogia della speranza” (Teologia della speranza, 1970, Il Dio crocifisso, 1973, La chiesa nella forza dello spirito, 1975), idealmente legato a Bloch e Bonhoeffer.
[68] Benjamin e Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940 (titolo originale: Briefwechsel 1933-1940, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag 1980), Einaudi Paperbacks 175, Einaudi, Torino 1987; cfr. p. 250.
[69] P. es., quello di L. White, M. Harris, ecc. Per tutti, cfr. Marvin Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Il Mulino, Bologna 1971.
[70] A.L. Kroeber, La natura della cultura, 1952, Il Mulino, Bologna 1974.
[71] A.L. Kroeber, Antropology, Harcourt, Brace, New York 1923 e 1948.
[72] Il concetto della perdita attraversa la riflessione di Benjamin, in particolare la sua filosofia della lingua e della storia, la tesi di una realtà in cui si crea perdita d’esperienza. Fondamentali testi sono allora: Il compito del traduttore, Sulla facoltà mimetica, Tesi di filosofia della storia, tutti in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995.
[73] Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Milano, Adelphi 2004.
[74] Non è lecito soggiacere, per convenienza, nell’ossimoro di una fede laica quando il problema che si affronta è quello filosofico della definizione del senso della storia. Si veda, comunque, in proposito la nota 7.
[75] Paul Ricoeur, Se l’identità è un’opinione, in ‘Repubblica’, 9 agosto 2004, da L’indennità fragile. Rispetto dell’altro e identità culturale, in ‘Alternative’ (Ponte delle Grazie), Valence 1913, da una conferenza tenuta a Praga.
[76] Cfr. S. Freud, Erinnern, Wiederholen, Durcharbeiten, dove il soggetto che non è in grado di elaborare i suoi ricordi e i suoi ‘fantasmi’ s’involge in una ‘coazione a ripetere’, in una resistenza alla rielaborazione e alla rimozione. Si veda S. Freud, The Standard Edition, The Hogarth Press and the Institut of Psycho-Analysis, London 1967-1974 (vol. XXIV): in vol. XII: Remembering, Repeating and Working-Through (1914), p. 145 sgg.; in particolare pp.150-154.
[77] Cfr. René Girard, critico francese autore di La violence et le sacré, 1972, tr. it. Milano 1980, sul rapporto tra il sacro e la violenza, a partire dai miti e dai riti, e sul rifiuto da parte della vittima del proprio ruolo di capro espiatorio (Gesù, per esempio). [78] Violenza, dal latino ‘violare’ (a sua volta, appunto, da ‘vis’ [forza, violenza]), sta per ‘non osservare il disposto’ (e qui dunque il confine della soggettività), ma sta anche per ‘entrare a forza’, ‘aprire con la forza’, ‘forzare’, oltre che ‘oltraggiare’; e la dedizione è allora ‘lasciare forzare ed entrare’.
[79] In proposito, S. Freud, Standard Edition, soprattutto:1, 121 sg., 371 sg.; 2, 194 sg.; 16, 400 sgg.; 20, 164 sgg.; 22, 82 sg.