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PER UN SEMINARIO SULLA ATTUALITÀ DI E PER GRAMSCI

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26 giugno 2009
PER UN SEMINARIO SULLA ATTUALITÀ DI E PER GRAMSCI
Proposta per un seminario della IGS-Italia

Fabio Frosini 

Avvertenza
Quelle che seguono non sono più di indicazioni, tracce, suggerimenti per una discussione. La scheletrica formulazione preliminare in “tesi” è funzionale a rendere la discussione stessa più agevole, non a scolpire delle certezze, nonostante il tono a volte enfatico e perentorio.

1. Tra le maree
Questa proposta di seminario è un appello alla responsabilità, che noi dobbiamo sentire in quanto studiosi di Gramsci. C’è stata una lettura di Gramsci in grande parte interna alla tradizione dello storicismo italiano, un “crocio-gramscismo” (F. Rossi-Landi) che ha spinto a interpretare tutta una serie di concetti – da praxis a uomo, da cultura a storia – in termini tutto sommato concilianti e rassicuranti, rispetto alla concezione nazionale della “cultura” come tradizione unitaria; e si annuncia ora (e non è difficile prevedere che presto dilagherà ovunque) una lettura di Gramsci che ci torna indietro filtrata attraverso gli studi culturali e post-coloniali, che sarà molto probabilmente interna a un’impostazione decostruzionistica e post-moderna, anch’essa tutto sommato – nel suo apparente radicalismo – conciliante e rassicurante con “lo stato di cose presente”. Nell’intervallo tra le due maree ci è data l’occasione di inserirci virtuosamente.
 
2. Il vecchio e il nuovo
Tra le due maree, sono accadute molte cose, e all’analisi di queste “cose” dovremmo anche essere chiamati. Ma ciò che realisticamente possiamo fare, è anzitutto appropriarci di un’indicazione che si trova nei Quaderni, in grande e inequivocabile evidenza: la “crisi” non potrà avere una soluzione progressiva, se “il nuovo” non saprà darsi indipendenza e autonomia di pensiero, di giudizio, d’azione.
Questa indipendenza e questa autonomia sono vitali alla capacità di condurre delle analisi critiche del presente, ma non possono essere conseguite senza intellettuali. Ma come impostare oggi questo compito? non è oggi più che mai vivo il rischio di ridursi a un delirio autoreferenziale? di immaginarsi portavoce di qualcuno che neanche si accorge di noi? La formazione di intellettuali organici dei gruppi subalterni è un lavoro lungo, complesso, «continuamente spezzato dall’iniziativa dei gruppi dominanti», senza scorciatoie. Immaginare di fare noi questo lavoro sarebbe infantile, oltre che ozioso. Ciò che possiamo (e quindi dobbiamo) fare, è “analizzare la situazione”, fissare i “rapporti di forze” che nella loro tensione la organizzano, sfuggendo agli impressionismi, alle geremiadi (ne abbiamo sentite anche troppe), al “ve lo avevo detto”.
È il nostro (di intellettuali) modo di contribuire alla costruzione del “nuovo”: una ricerca.
 
3. Vicoli ciechi
Esiste il rischio di infilarci in vicoli ciechi. Uno di questi (il più a portata di mano, quindi il maggiormente pericoloso) è il corto-circuito partitico, cioè il dare alle nostre preoccupazioni all’interno del seminario un “doppio fondo” politico, usando obliquamente o allusivamente il linguaggio della ricerca. Quando non solo in Italia ma in Europa l’intera tradizione del socialismo e del comunismo novecentesco attraversa una crisi profonda di identità, fare questo equivarrebbe direttamente a uccidere il seminario. Né possiamo disinteressarci di questi aspetti, ma dobbiamo precisamente revocarli in dubbio, assumere la storicità delle nostre stesse posizioni, andare alla radice dei mali che ci affliggono senza spaventaci dinnanzi alle peggiori conclusioni alle quali possiamo in tal modo giungere.
Il partito politico oggi (in tutte le sue forme, più o meno organizzate o fluide) è il problema, non la soluzione.
 
4. Mostri
Cosa è oggi “vecchio”, cosa “nuovo”? cosa è “progressivo”? Non nascondiamoci la difficoltà, che non è solo analitica ma metodologica. Prendiamo il modo in cui Gramsci reagisce allo «hitlerismo»: parla di «lorianismo mostruoso che ha rotto la crosta ufficiale e si è diffuso come concezione e metodo scientifico di una nuova “ufficialità”». Perché mostruoso? Gramsci, che aveva rimproverato a Bucharin di giudicare «il passato come “irrazionale” e “mostruoso”» trasformando «la storia della filosofia» in «un trattato storico di teratologia», non cade qui forse nello stesso errore, che consiste nell’assegnare “metafisicamente” una razionalità sostanziale alla storia e al presente (al presente come culmine della storia), dinnanzi alla quale il nazionalsocialismo non può che apparire una mostruosa aberrazione?
“Mostro” è però anche, etimologicamente, un “ammonimento” che ci richiede un inaudito sforzo di decifrazione.
 
5. Metafisica
«E invece nel Manifesto è contenuto il più alto elogio del mondo morituro». Questa frase è rivolta contro Bucharin nel contesto della critica al suo approccio metafisico, e significa: il vero rapporto critico-distruttivo con il presente consiste nel pensarne l’intrinseca “razionalità”-“necessità”, senza però dare a questi termini il significato di una metafisica intrascendibilità.
“Razionalità” e “necessità” sono termini della metafisica, ma Gramsci se ne occupa nei Quaderni, perché nessuna politica ne può fare a meno: ogni politica – nella misura in cui non voglia confessare di essere pura violenza, mero esercizio del diritto del più forte – si giustifica sulla base di una pretesa corrispondenza alla storia, e facendo appello alla ricerca di una sistemazione della società razionale e giusta: insomma invocando l’Universale. Ma in questo modo tende a negare sé stessa in quanto politica, perché assegna a dei criteri a sé esterni – la necessità storica, la razionalità sociale, la giustizia – il compito di giudicare della propria “verità”. Cade nella metafisica. La critica/politica comunista è invece, per Gramsci, precisamente la riduzione a politica della razionalità e della necessità, non per eliminarle, ma per riportarne in luce il carattere contingente, legato cioè a una sistemazione sempre provvisoria dei rapporti di forze: «riduzione a “politica” di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico-politica». In questo modo la filosofia viene restituita alla storia.
Significa, questo, ridurre tutto a un gioco di rapporti di forze (scimmiottando Nietzsche da sinistra)? O piuttosto significa ripensare in termini nuovi la nozione stessa di “universalità”?
 
6. Universale
«Tutti i concetti “unitari” staticamente vengono dileggiati e distrutti»; che nella seconda stesura diventa: «Tutti i concetti dogmaticamente “unitari” vengono dileggiati e distrutti» (cors. miei). Questa frase, che illustra la posizione critica della filosofia della praxis, è ben chiara: staticità = dogmaticità = falsa unità. La falsa unità è quella postulata da chi la oppone alla singolarità molteplice degli “accidenti”. Contro questa concezione, occorre ripensare dinamicamente (contro la stasi) e criticamente (contro il dogmatismo) i grandi concetti della metafisica occidentale: l’Unità, l’Universalità, la Verità. «D’altronde non bisogna pensare che la forma di pensiero “antiesperantistico” significhi scetticismo o agnosticismo o ecclettismo. È certo che ogni forma di pensiero deve ritenere se stessa come “esatta” e “vera” e combattere le altre forme di pensiero; ma ciò “criticamente”. Dunque la quistione è sulle dosi di “criticismo” e di “storicismo” che sono contenute in ogni forma di pensiero» (cors. mio). In questo passo (introdotto in seconda stesura) Gramsci dice che essere contro il mito di una lingua universale, e dunque assumere la diversità delle lingue come orizzonte intrascendibile, non rende impossibile pensare l’unità, l’universalità, la verità.
Qualcuno ha definito il Quaderno 11 una “teorizzazione dell’errore”: al di là di qualsiasi seduzione post-modernistica, potremmo fare nostra questa formula, e vederne la validità costruttiva. Potremmo pensare l’“errore” come la presenza (inevitabile) della politica dentro la teoria, non fuori o contro di essa; come il carattere “pratico” e non “teorico” del pensiero.
Dobbiamo avere il coraggio di abbandonare la stanza vuota dell’Universale e avventurarci, senza perderci, nel labirinto delle differenze, alla ricerca di un universale «reale nel senso profano della parola».
 
7. Tempo
C’è nei Quaderni del carcere una teoria del tempo storico? C’è una teoria della sua pluralità irriducibile? Qualcuno ha parlato – lasciando però la frase a metà – di “concezione multiversa” del tempo in Gramsci. Difatti, la multiversalità del tempo e la sua pluralità (la contemporaneità del non contemporaneo, la stratificazione temporale, ecc.) sono state rivendicate sempre, dall’interno marxismo, in congiunture politiche ben precise: da Lenin a partire dal 1917 fino alla morte («nel periodo transitorio, in cui viviamo, ci sarà impossibile uscire da questa realtà a mosaico», 1919), da Bloch nel pieno della “rivoluzione tedesca” e poi al momento dell’affermarsi del nazismo, da Benjamin negli anni Trenta dominati dalla “coppia” stalinismo e socialdemocrazia, da Althusser negli anni Sessanta dell’“umanesimo socialista”. Ma anche dallo stesso Marx nello scritto sulla Comune di Parigi e nella corrispondenza sulla comune rurale russa... Ogni volta queste rivendicazioni tentavano di rompere la gabbia del determinismo unilineare del tempo “economico” per fare spazio alla politica, per spezzare l’incantesimo che ha avvinto il marxismo alla dicotomia non dialettica di “condizioni oggettive” e “iniziativa soggettiva”. Occorre vedere se la concezione gramsciana della traducibilità dei linguaggi come «elemento “critico” [...] solamente proprio della filosofia della prassi (in modo organico) e solo parzialmente appropriabile da altre filosofie» non ci aiuti ad andare in questa direzione.
A partire da ogni punto della storia è possibile costruire il comunismo, a partire da ogni lingua è possibile dire tutto il mondo.
 
8. Progressivo
In un celebre testo del Quaderno 1, discutendo della capacità di attrazione esercitata dai moderati italiani sulla «massa d’intellettuali esistenti nel paese allo stato “diffuso”, “molecolare”», Gramsci fa questa annotazione generale: «Questo fenomeno si verifica “spontaneamente” nei periodi in cui quella determinata classe è realmente progressiva, cioè fa avanzare l’intera società, soddisfacendo alle sue esigenze esistenziali non solo, ma ampliando continuamente i suoi quadri per una continua presa di possesso di nuove sfere di attività industriale-produttiva. Quando la classe dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla “spontaneità” succede la “costrizione” in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato» (cors. mio). Qui “realmente progressiva” è una politica che afferma il primato di una classe nella vita nazionale, attraverso l’istituzione di un rapporto dinamico, aperto e non burocratico tra di essa e il resto della società. Insomma: si è progressivi nella misura in cui non si è corporativi. Progressivo è ciò, che revoca in questione gli equilibri dati, che riformula il rapporto tra interno ed esterno a una classe sociale, lasciando campo libero all’iniziativa “privata”, che dunque rinuncia alla burocrazia, ai provvedimenti amministrativi, polizieschi, militari.
Progressivo è un equivalente di egemonico.
 
9. Democrazia
Abbiamo davanti le grandi rivoluzioni conservatrici, non solo il nazismo e i vari fascismi, ma l’ondata repressiva degli anni Ottanta, il neoconservatorismo dei Novanta e, in questo inizio di secolo, la dissoluzione delle classiche compagini sociali e politiche europee. Il “nuovo” non è sempre auspicabile, la “conservazione” ha imparato a farsi innovazione, anzi “rivoluzione”. Questo scompaginamento delle classiche dicotomie progressismo/conservatorismo fatica a essere capito anche oggi, ma nei Quaderni troviamo un serio tentativo di pensarlo: dalla marxiana Prefazione del 1859 alla “rivoluzione in permanenza” e alla “rivoluzione passiva”, il ragionamento di Gramsci spinge a ripensare profondamente la linearità dell’opposizione “vecchio” – “nuovo”. Quindi non ci possiamo rifugiare dietro un dito, e dire: “per Gramsci esistevano chiaramente il vecchio e il nuovo, mentre per noi tutto ciò sfuma nell’ombra”. Anzi, quell’ombra è stato lui il primo a vederla in tutta la sua minaccia, e ad avere il coraggio di entrarci dentro. Dunque dobbiamo farlo anche noi, lasciando a terra, come fardelli inutili, sia le reliquie identitarie che ci appesantiscono, sia le invettive moralistiche che ci indeboliscono, e avere il coraggio di pensare il nesso (che deve esistere, se tutto questo è potuto e può accadere) tra democrazia e demagogia, tra “peuple” giacobino e “populismo” televisivo.
La democrazia è un possibile esito della contesa, non il campo neutro in cui la contesa si svolge.
 
10. Attualità
Che cosa è “attuale”? È un termine, questo, banalmente disponibile: attuale è ciò che è all’ordine del giorno, e che per definizione presto diventa non più attuale, in una fantasmagoria di avvicendamenti in cui le novità si scalzano e si confondono in un’identità statica, vuota e funebre (Leopardi lo ha detto perfettamente nel Dialogo della Moda e della Morte). Con Gramsci – con le sue categorie – possiamo dare un altro volto al presente attuale, pensarlo come una frontiera mobile, una lotta aperta e indecisa, il luogo in cui si combattono i diversi progetti egemonici reali o anche solo potenziali, “minacciati”. La mobilitazione delle masse, indispensabile alla politica novecentesca (guerra totale, produzione e consumo di massa, mobilità spaziale e sociale), rende di fatto sempre presente la minaccia di un’egemonia dei “molti”. Lo aveva capito Machiavelli: «se tu vuoi fare uno popolo numeroso e armato, per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo»: cioè lo puoi maneggiare solo ottenendo il suo “consenso”, dunque in un “modo” che è tanto “tuo” quanto “suo”, in cui il popolo deve “metterci” qualcosa di “suo”. Di qui il proliferare delle tecniche di controllo dell’opinione pubblica, che ci danno “l’impressione” che il mondo sia piatto, che il presente sia un luogo assoluto, intrascendibile; e che la direzione a esso impressa sia ineluttabile: “nelle cose”; ma che in realtà fanno di tutto (perché non possono fare altrimenti) per porsi dalla prospettiva di chi quel consenso può dare o non dare. È in fin dei conti la struttura della rivoluzione passiva: solo accogliendo dentro di te una parte cospicua dell’avversario, riuscirai a batterlo; perché l’avversario non è qualcosa di cui puoi fare a meno, perché l’avversario è “il popolo” stesso, cioè il “tutto” di cui tu, classe dominante, sei solo una piccola “parte”.
Questa rivoluzione passiva noi dobbiamo saperla riconoscere per restituire al presente la sua apertura di insieme di rapporti di forze “in atto”.
 
Un’idea di seminario
1. Proviamo ad assumere il nostro presente come una provocazione, una sfida intellettuale, e a investire la nostra intelligenza nella sua comprensione critica; a impiegare la nostra intelligenza senza narcisismi, personalismi, rinunciando a voler avere ragione; pensando solo alla “cosa stessa”. Proviamo a rileggere i Quaderni del carcere – o anche tutto Gramsci – a partire da questa esigenza. L’enigmatica rubrica dei Quaderni “Passato e presente” può darci delle indicazioni, su come si possano comporre in un mosaico le tessere esplose della contemporaneità.
Ma si può dire di più. La lettura diacronica dei Quaderni, del loro “ritmo” ci dice inequivocabilmente che le categorie in essi operanti non vivono fuori dei punti di riferimento che organizzano, che cioè senza conoscere la storia di quel periodo non capiamo niente del pensiero di Gramsci. Questo lo vediamo in mille luoghi, in mille aspetti, che non sono solo gli “spunti” derivanti dalla lettura di questo o quel libro o articolo. Pensiamo solo alla “crisi” mondiale, al modo in cui scandisce e periodizza la riflessione del carcerato; o al piano quinquennale in Unione Sovietica; o al Concordato tra Stato e Chiesa cattolica; o all’avvento al potere di Hitler; o al profilarsi del planismo e della programmazione economica... Dovremmo organizzare uno studio sistematico del modo in cui determinati eventi, da Gramsci giudicati periodizzanti o addirittura epocali, lo costringono a riorganizzare la rete di concetti gettata sul presente.
 
Solo facendo questo potremo imparare a fare la stessa cosa per il nostro presente, sfuggendo alla facile “riconduzione” degli eventi a una storia di decadenza (dal “va sempre peggio” al “tanto peggio tanto meglio”) o di vuote occorrenze (“niente di nuovo sotto il sole” dello sviluppo capitalistico) o di cos’altro si voglia escogitare; ma anche sfuggendo alla tentazione di trasporre meccanicamente le categorie dei Quaderni all’analisi dell’oggi.
 
Ecco dunque una proposta concreta: un seminario di studio intertestuale dei Quaderni del carcere, che cioè metta il suo “ritmo” in relazione al modo in cui Gramsci “legge” i grandi avvenimenti del proprio presente (e passato prossimo: la guerra, la rivoluzione, la catastrofe del proletariato in Italia, ecc.)
 
2. Uno spazio a parte deve essere dedicato, in questo lavoro, al rapporto con l’Unione Sovietica. È incredibile quanto poco questo tema sia stato studiato! E soprattutto, con quanto poco studio delle “fonti” che Gramsci aveva a disposizione, sulle quali si faceva un’idea. Neanche disponiamo, a mia conoscenza, di un catalogo attendibile di queste fonti. Uno studio non impressionistico, non “categoriale” (cioè generico, teorico) del rapporto con l’URSS non può che partire da lì. Qualsiasi opinione possiamo avere dell’antistalinismo o del non stalinismo di Gramsci, una cosa sappiamo per certo: che esso, se c’è, è diverso anzi opposto all’antistalinismo di un Souvarine, e questo dovrebbe iniziare a stimolare in noi molti dubbi. C’è dunque tutto un lavoro da svolgere su questo terreno, per andare oltre i luoghi comuni e fare storia e non propaganda.
 
3. Un altro spazio a parte andrà dedicato alla coppia democrazia/comunismo. Qual è la relazione tra queste due nozioni? Questa domanda non può essere posta in astratto, ma nel concreto dei tempi di Gramsci. Porre la questione in astratto vorrebbe dire semplicemente proiettare indebitamente il nostro modo “attuale” di vedere all’indietro, sugli anni Venti e Trenta del Novecento. E invece dobbiamo fare il contrario, e capire una serie di concetti che Gramsci utilizza – il parlamentarismo nero, l’americanismo, l’economia media, il cesarismo, il costituentismo, il «re o [...] presidente di repubblica che “regna e non governa”», la nuova concezione del diritto comprendente anche l’«indifferente giuridico», la nuova concezione del «legislatore», della «polizia» ecc. – sulla base dei riferimenti a lui presenti, sulla base del loro valore di posizione nella lotta in corso non tra un astratto capitalismo e un astratto comunismo, ma tra l’americanismo, i regimi parlamentari europei, il fascismo, l’Unione Sovietica.
Solo afferrando pienamente il significato concreto di queste categorie, potremo affrontare in modo non banale, non sloganistico, non logoro e inservibile, il nodo democrazia/comunismo nei Quaderni, che a mio avviso c’è ed è di straordinaria importanza.
 
4. In questo seminario non può mancare una riflessione metodologica. Con “metodologia” intendo l’astrazione immanente delle categorie in uso, astrazione che ci dà la possibilità di superare la “descrizione” e di attingere un “punto di vista critico”. («La pura descrittività e classificazione esterna della vecchia sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia un amabile scetticismo da salotto o da caffè reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo».) Questo controllo critico è indispensabile, perché tutta una serie di concetti – “subalterno”, “traduzione”, “cultura”, per dire solo i principali – vengono utilizzati oggi negli studi culturali, di genere e post-coloniali, sulla base di una metodologia differente dal quadro teorico della “filosofia della praxis”. Senza pretendere di stringere in un fascio cose differenti, è necessario prendere posizione rispetto a queste impostazioni che, come già detto, ci si profilano – oggi in Italia – dinnanzi e che occuperanno sempre più la scena culturale di questo paese.
 
Che ciò accada con uno scontato e superficiale riferimento a Gramsci – o no, dipenderà soprattutto da noi.