Testi

CULTURA E SOCIETÀ IN BRASILE - CARLOS NELSON COUTINHO

2001
CULTURA E SOCIETÀ IN BRASILE
Carlos Nelson Coutinho

Trad. it. di Antonino Infranca

Il saggio di  Carlos Nelson Coutinho è stato scritto tra il 1977 e il 1979, edito in Cultura e sociedade no Brasil. Ensaios sobre idéias e formas, Rio de Janeiro, DP&A, 2000, pp. 37-80, il saggio è stato tradotto da Antonino Infranca e pubblicato nel numero 3 del 2001 della "Rivista di studi portoghesi e brasiliani". Ringraziamo il prof. Ettore Finazzi Agrò, direttore della rivista, per averne autorizzata la presente edizione elettronica. Il testo è stato rivisto dall'autore, che lo ha lasciato sostanzialmente inalterato, poco tempo prima delle elezioni che hanno portato Lula alla guida del nuovo governo brasiliano. La grande novità del quadro culturale e politico in Brasile non attenua, anzi accresce l'importanza del contributo di Coutinho, il quale sarà ospite della IGS-Italia a Napoli (8-10 maggio).

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Il presente saggio[1] non ha neanche la minima pretesa di esaurire — né storicamente né sistematicamente — i molti e complessi problemi che affronta. Deve essere letto come un insieme di annotazioni più o meno frammentarie su alcuni argomenti che mi sembrano decisivi per la corretta collocazione e il giusto avviamento in Brasile della questione culturale. 

Ciò che unifica relativamente queste annotazioni è il fatto che esse partono da un presupposto — quello che non è possibile comprendere la problematica della cultura brasiliana senza esaminare alcune caratteristiche della nostra intellettualità, legate in modo specifico allo sviluppo sociale del nostro paese — e sboccano in una prospettiva: la maniera con la quale la “questione culturale” si risolverà nel futuro immediato dipenderà, in misura non disprezzabile, dalla risoluzione dei complessi problemi posti dal rinnovamento democratico e sociale del paese.

Ciò non vuol dire, comunque, che queste annotazioni pretendano di essere “normative” nel senso stretto della parola; ossia, non hanno l’intenzione di dettare al creatore culturale certe regole estetiche e/o determinati procedimenti politico-morali senza l’osservanza dei quali “non ci sarebbe salvezza” per lui. Nella creazione artistica o culturale in generale, “non c’è salvezza” per il creatore se egli non si compromette radicalmente con i valori e i principi che considera i più adeguati alla sua personalità in quanto creatore. In questo senso, se in questo saggio c’è qualche “norma” proposta, essa è la difesa intransigente della più ampia e radicale libertà della creazione culturale.

Tuttavia, anche correndo il rischio di ripetere l’ovvio, mi piacerebbe avvertire che questa libertà di creazione mi sembra condizionata da due “limiti”. In primo luogo, operando sempre in un quadro storico-sociale concreto, la libertà di creazione implica condizionamenti sociali, dei quali il creatore può o no essere cosciente. E, dato che la libertà in generale è anche riconoscimento della necessità, come volevano Hegel ed Engels, allora la specifica libertà di creazione non sarà limitata — piuttosto ampliata — se il creatore prenderà coscienza delle implicazioni sociali (tanto dal punto di vista della genesi quanto degli effetti) della sua produzione culturale: uno degli obiettivi di questo saggio è precisamente quello di delineare nel caso brasiliano alcuni di questi condizionamenti concreti e, con ciò, contribuire a una presa di coscienza degli stessi da parte dei produttori di cultura.
In secondo luogo, la più ampia libertà di creazione ha come contropartita necessaria la più ampia libertà di critica: se soltanto al creatore compete, in ultima istanza, definire i contenuti e le forme della sua creazione (egli lo farà in modo tanto più libero quanto più sarà cosciente dei condizionamenti sociali ai quali mi riferisco), al critico culturale spetta il diritto di esercitare la sua piena libertà di valutare — in nome dei criteri che considera validi — i risultati concreti di questa creazione. E’ evidente che la pratica di questa doppia libertà, di creazione e di critica, implica da entrambe le parti la possibilità di riuscita o fallimento (con tutte le loro gamme intermedie). Ma la decisione quanto a ciò non può, in nessun caso, dipendere da altra istanza che non sia la stessa dialettica della vita culturale, nella pluralità dei suoi orientamenti e delle sue tendenze. Forse potrà apparire superfluo insistere su questo; ma ci sono stati e ci sono fatti concreti che rendono necessario eliminare dubbi e preconcetti, se effettivamente desideriamo creare in Brasile, anche sul piano della vita culturale, un’effettiva democrazia pluralista.

1. Subordinazione formale e subordinazione reale: o come le idee “prendono posto”
Uno dei primi argomenti per una giusta concettualizzazione della “questione culturale” in Brasile è l’analisi della relazione tra cultura brasiliana e cultura universale. Nella sua dimensione ontologico-sociale, questo è un problema che non può essere risolto sul piano di una analisi immanente delle “fonti” e delle “influenze”. C’è una precedente questione storico-genetica a cui dare risposta: in che modo si è articolata l’evoluzione delle formazioni economico-sociali brasiliane con lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale, formazioni della cui riproduzione e trasformazione la nostra cultura è momento determinato e determinante? Collocando nella domanda la questione del capitalismo, già indichiamo in buona parte la risposta. In quanto formazione sociale specifica e relativamente autonoma, il Brasile sorge nell’epoca del predominio del capitale mercantile, nell’epoca cioè della creazione di un mercato mondiale. La nostra preistoria come nazione, ossia i presupposti dei quali siamo il risultato, non risiede nella vita delle tribù indigene che abitavano il territorio brasiliano prima dell’arrivo dei portoghesi: si situano piuttosto nel contraddittorio processo dell’accumulazione primitiva del capitale, che aveva il suo centro dinamico nell’Europa occidentale. Gli effetti culturali di questo processo furono così descritti da Marx ed Engels: “In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano un patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale” [2].
L’obiettivo centrale del colonialismo, all’epoca del predominio del capitale mercantile, consisteva nell’estorcere valori d’uso prodotti dalle economie non capitalistiche dei popoli colonizzati, con la finalità di trasformarli in valori di scambio sul mercato internazionale. La subordinazione di queste economie, adesso “periferie” del capitale mercantile metropolitano, si aveva nel terreno della circolazione: era, per usare con certa libertà un celebre concetto di Marx, una subordinazione formale[3], che manteneva essenzialmente non modificato il modo di produzione del popolo colonizzato. Il fatto che l’estorsione crescente di valori d’uso portasse, con il passare del tempo, a una alterazione delle basi economiche e sociali del modo di produzione interno in un senso mercantile e anche capitalista (ossia che gradualmente si passasse dalla subordinazione formale alla subordinazione reale), è un risultato non intenzionale del processo di colonizzazione, non essendo caratteristico dei suoi inizi. (Torneremo dopo su questa questione).
Lo schema sopra indicato vale anche per il caso brasiliano; ma presenta qui una specificità della più grande importanza, che non può essere trascurata nella valutazione della nostra dipendenza coloniale e che ha ampie conseguenze sul piano della cultura. Non c’era nel nostro territorio una formazione economico-sociale che, sebbene primitiva, fosse capace di fornire cospicui surplus al processo di circolazione del capitale mercantile colonialista. Il problema, così, era di creare un meccanismo produttivo che si articolasse direttamente con il mercato mondiale. Ma il fatto che il modo di produzione vigente nell’epoca coloniale fosse stato posto e riposto dal movimento internazionale del capitale, non significa, come pensano molti dei nostri storici, che si trattasse di un modo di produzione capitalista, benché “imperfetto” o “incompleto”[4]. Questi storici non tengono nel debito conto il fatto che la caratteristica essenziale del modo di produzione capitalistico — caratteristica che forma la base della legge del valore-lavoro e, in conseguenza, di tutte le altre leggi che operano in questo modo di produzione — è l’esistenza del lavoro libero, del lavoro salariato, che praticamente non esiste in Brasile durante tutta l’epoca coloniale. Ma neanche mi pare corretto che, in una giusta reazione alla teoria del “capitalismo coloniale”, altri storici insistano eccessivamente sulla tesi dell’autonomia del nostro modo di produzione, arrivando anche ad affermare che il processo di circolazione nel periodo coloniale era fissato dal modo di produzione interno, invece di essere — come penso — il punto attraverso il quale questo modo di produzione diventava formalmente subordinato al capitale (mercantile) internazionale.
Senza entrare qui nei dettagli dell’ampia polemica circa la natura di questo modo di produzione pre-capitalista dell’epoca coloniale, assumo come ipotesi che si trattasse di un modo di produzione schiavista. Altresì, l’aggettivo coloniale non mi sembra caratterizzare il modo di produzione, nel senso di attribuirgli nuove leggi, ma indica precisamente il suo vincolo di subordinazione formale al capitale internazionale: una subordinazione che certamente sovradetermina queste leggi, che però sono le leggi generali di ogni modo di produzione schiavista con dominio mercantile)[5]. L’elemento schiavista è quello che fornisce il marchio determinante della formazione economico-sociale. Esso interferisce, da un lato, nella produttività economica del sistema, che si mantiene stazionaria (al contrario di quanto accadrebbe nel feudalesimo)[6], con tutte le conseguenze che ne risultano per la creazione ulteriore di un mercato interno e, conseguentemente, per la forma “prussiana” che prevarrebbe nella transizione verso il capitalismo[7]. E, d’altro lato, vale risaltare il marchio schiavista sulla struttura delle classi: la degradazione del lavoro manuale, che è molto più intensa nello schiavismo che nel feudalesimo, opera nel senso di creare fasce “medie” marginalizzate dal sistema (tanto nelle città quanto nella campagna), che possono soltanto riprodursi attraverso il “favore” dei potenti. Più avanti vedremo la fondamentale importanza del “favore” nella formazione della intellettualità brasiliana.
Il fatto che i presupposti della formazione economico-sociale brasiliana fossero situati all’estero ha avuto una conseguenza importante per la questione culturale. Questo significa che, nel caso brasiliano, la penetrazione della cultura europea (che si stava trasformando in cultura universale) non ha trovato ostacoli preesistenti. In altre parole: non esisteva una significativa cultura autoctona precedente alla colonizzazione, che potesse apparire come la “nazionale” in opposizione all’ “universale”, o l’ ”autentica” in contrasto con la "straniera". Basti pensare al mondo arabo, alla Cina o all’India, o anche al Perù o al Messico, per comprendere immediatamente la differenza con il caso brasiliano. In Brasile, anche nell’epoca della subordinazione formale, ossia anche quando il modo di produzione interno ancora non era capitalista, le classi fondamentali della nostra formazione economico-sociale coloniale trovavano le loro espressioni ideologiche e culturali in Europa[8]. Con la sua abituale lucidità, Antonio Candido registra il fatto (il quale, nella sua concretezza, non dipende da giudizi di valore): “Imitare, per noi, è stato integrare, far parte cioè della cultura occidentale, della quale la nostra era un debole ramo in crescita. E’ stato egualmente manifestare la tendenza costante della nostra cultura, che si è sempre rivolta ai valori europei come mete e modelli”[9].
La cultura universale, così, non era qualcosa di esterno, imposto a forza alla nostra formazione sociale, ma qualcosa potenzialmente interno, che diventava effettivamente interno nella misura in cui (o nei casi che) era raccolto e assimilato da una classe o un blocco di classi legate al modo di produzione brasiliano. Nato nel momento in cui si forma il mercato mondiale, e come conseguenza della sua espansione, il Brasile, a partire dalla sua origine, è già erede potenziale di quel patrimonio culturale universale di cui parlano Marx ed Engels. La storia della cultura brasiliana, pertanto, può essere schematicamente definita come se fosse la storia di questa assimilazione — meccanica o critica, passiva o trasformatrice — della cultura universale (che è certamente una cultura altamente differenziata) da parte delle varie classi e strati sociali brasiliani. Insomma, quando il pensiero brasiliano “importa” un’ideologia universale, questo è la prova che una determinata classe o uno strato sociale del nostro paese ha trovato (o ha creduto di trovare) in questa ideologia l’espressione dei suoi propri interessi brasiliani di classe. Quando in Brasile è sorta la classe operaia, essa non è andata a cercare la sua espressione teorica adeguata nei miti degli indigeni o nelle religioni africane.
Prima di proseguire è opportuno dissipare un possibile malinteso. Seppure condizionato dalla relazione di dipendenza (o di subordinazione economica), questo vincolo con la cultura universale non impone necessariamente un carattere dipendente o "estraniato" alla totalità della nostra cultura[10]. Da un lato, all’interno della nostra formazione sociale, c’è la presenza di classi antagonistiche, con prospettive differenti di fronte al problema della dipendenza politica ed economica, della subordinazione (formale o reale) al capitale mondiale; dall’altro, nel seno della cultura universale, sorgono correnti ideologiche diverse che riflettono sul piano delle idee — per esprimerci in modo semplificato — l’antagonismo tra progresso e reazione. Ora, è naturale che si formino “affinità elettive” tra le classi anticoloniali e antimperialistiche e le correnti progressiste; o tra i beneficiari della dipendenza e le correnti reazionarie. Il processo non è certamente meccanico, comportando la possibilità di “errori” e “sviamenti”: ma mi pare giusto dire che, quando “trapiantata” in Brasile da una classe progressista e anticoloniale, una corrente culturale avanzata ha contribuito a formare nel nostro paese una coscienza sociale effettivamente nazional-popolare, contraria allo spirito di dipendenza, quello che Nelson Warneck Sodré ha chiamato “ideologia del colonialismo” (ossia, l’adozione da parte dei brasiliani di correnti culturali — come il razzismo — che giustificano la nostra situazione di dipendenza)[11].
Come quasi ogni riproduzione sociale, anche quella della dipendenza è una riproduzione ampliata, che implica a lungo termine trasformazioni di qualità. Accade, così, una progressiva conversione della dipendenza mediante la subordinazione formale in dipendenza mediante la subordinazione reale; questo avviene quando lo stesso modo di produzione interno, sotto l’azione combinata di fattori endogeni ed esogeni, diventa effettivamente capitalista e si subordina non più o soltanto al capitale mercantile o commerciale, ma anche e soprattutto al capitale industriale o finanziario internazionale. Questa conversione crea nuove condizioni per la nostra storia culturale. Quanto più diventa dominante la subordinazione reale, tanto più scompare quel fenomeno che Roberto Schwarz, nella sua lucida analisi della cultura brasiliana del XIX secolo, ha chiamato “idee fuori posto”.
Secondo Schwarz, il più chiaro esempio di questa “inadeguatezza” tra idea europea e realtà brasiliana è l’importazione del liberalismo nel XIX secolo. Il vincolo del modo di produzione interno (sebbene non capitalista) con il capitale mondiale, soprattutto all’epoca immediatamente precedente e successiva all’Indipendenza, ha portato il blocco delle classi dominanti del Brasile di allora — formato dall’unione dell’oligarchia latifondiaria e schiavista con i rappresentanti interni del capitale commerciale — ad adottare un‘ideologia liberale borghese. Schwarz osserva: “Era inevitabile (…) la presenza tra di noi del raziocinio economico borghese — la priorità del profitto, con i suoi corollari sociali —, una volta che dominava nel commercio internazionale, verso dove era orientata la nostra economia”[12]. Ma, dato che quella ideologia liberale non si adeguava interamente al modo di produzione interno (che non era capitalista), si rivela oggettivamente come una “idea fuori posto”: “Questo insieme ideologico [liberale] andava a scontrarsi contro la schiavitù e i suoi difensori, e ancor di più, viveva con essi”[13].
C’è così — se interpreto bene Schwarz — una curiosa e paradossale dialettica di adeguatezza e inadeguatezza. E’ certo che il liberalismo esprime interessi effettivi degli strati dominanti: liberismo nel commercio internazionale, calcolo razionale nella commercializzazione dei prodotti di esportazione, garanzia di eguaglianza giuridico-formale tra i membri delle oligarchie rurali e commerciali, ecc. E, in un altro livello, esprime anche gli interessi degli uomini liberi ma non proprietari, che vedevano assicurati dall’ideologia liberale i loro diritti formali all’eguaglianza con i signori e la loro differenza di fronte agli schiavi. Ma, nei riguardi del fenomeno della schiavitù, della diseguaglianza stabilita come fatto naturale, del lavoro fondato sulla coercizione extraeconomica e non sulla libera contrattazione nel mercato, il liberalismo brasiliano di allora rivela la sua faccia “inadeguata” e “fuori posto”. Oltre a ciò, non si può neanche parlare di regolamentazione liberale nella relazione tra i “grandi” e gli uomini liberi senza proprietà. Il “favore”, che contrassegna tale relazione, consacra vincoli di dipendenza personale, di tipo pre-capitalista; è, di conseguenza, un modo di relazione autoritario (anche quando paternalista) e antiliberale.
E’ proprio questa dialettica di adeguatezza e inadeguatezza che, secondo me, si altera con il passaggio alla subordinazione reale. Con l’inizio dell’industrializzazione o, più precisamente, con la transizione del modo di produzione interno alla fase propriamente capitalista (il che già si verifica anche in certi settori dell’agricoltura nell’epoca dell’abolizione della schiavitù, sebbene ciò avviene in modo “prussiano”, ossia con la conservazione di tratti precapitalistici), le idee importate vanno sempre più “entrando nel loro posto", diventando più aderenti alle realtà e agli interessi di classi che tentano di esprimersi. E questo perché la struttura di classe della società brasiliana diviene essenzialmente analoga a quella della società capitalista in generale. Con ciò, le contraddizioni ideologiche che segnano la vita culturale brasiliana del XX secolo si avvicinano sempre più — benché senza mai omologarsi interamente — alle contraddizioni ideologiche proprie della cultura universale del periodo.
Già non si può dire, per esempio, che il “massimalismo” libertario del gran romanziere Lima Barreto sia semplicemente “fuori posto”; in verità, l’ideologia di Lima esprime — e proprio nella sua contraddizione interna, nei suoi limiti, nei suoi eventuali “sviamenti” in relazione alle matrici europee — la concreta problematica degli strati urbani subalterni che sono generati direttamente o indirettamente dalla crescita dell’industria. Per usare un’espressione di Lucien Goldmann, questa ideologia appare come il massimo della “coscienza possibile” di questi strati nei primi due decenni del XX secolo. Un’osservazione analoga varrebbe per il movimento modernista del 1922: senza discutere qui il contenuto ideologico di questo movimento, mi sembra che il tentativo di rinnovare le tecniche artistiche a partire dall’importazione dell’avanguardia europea può essere interpretata come l’espressione del necessario sforzo di adeguamento delle “forze produttive” dell’arte al nuovo universo quotidiano che il capitalismo, nella sua forma moderno-industriale, introduceva nella vita brasiliana, soprattutto a San Paolo. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, fino a mostrare come l’irruzione del neopositivismo o della controcultura nella vita culturale brasiliana più recente corrispondono — senza “essere fuori posto” — al passaggio del capitalismo brasiliano alla tappa del capitalismo monopolistico di Stato.

2. Gli effetti della “via prussiana” sull’intellettualità brasiliana.
Soltanto se avremo in mente questo vincolo strutturale della cultura brasiliana con la cultura universale, potremo valutare correttamente il senso e l’attualità del problema di una cultura nazional-popolare nel nostro paese, senza con questo cadere nella trappola di un falso “nazionalismo culturale”. Ma, prima di abbordare questo problema, è necessario indicare un’altra determinazione storico-genetica essenziale della cultura brasiliana, generata questa volta non tanto dal livello di dipendenza delle nostre relazioni di produzione, ma — attraverso la mediazione di questa base economica — dall’articolazione tra le classi e il potere politico che è stata la caratteristica dell’evoluzione storica del Brasile.
Questa problematica può essere riassunta dall’idea che il processo di modernizzazione economico-sociale in Brasile ha seguito una “via prussiana” o una “rivoluzione passiva”. Ricordiamo le caratteristiche centrali del fenomeno: le trasformazioni avvenute nella nostra storia non sono risultate da autentiche rivoluzioni, da movimenti provenienti dal basso verso l’alto, coinvolgendo l’insieme della popolazione, ma si sono verificate sempre attraverso una conciliazione tra i rappresentanti dei gruppi oppositori economicamente dominanti, conciliazione che si esprime sotto la figura politica di riforme “dall’alto”. É evidente che il fenomeno della “via prussiana” —così come Lenin lo formula — ha la sua espressione centrale nella questione del passaggio verso il capitalismo, nel modo di adeguare la struttura agraria alle necessità del capitale[14]. Ma, generalizzando il concetto, si può dire che, sulla base di una globale soluzione “prussiana” per la questione della transizione al capitalismo, tutte le grandi alternative concrete vissute dal nostro paese, direttamente o indirettamente legate a quella transizione (indipendenza, abolizione della schiavitù, repubblica, modificazione del blocco di potere nel 1930 e nel 1937, passaggio a un nuovo livello di accumulazione nel 1964, fine della ditattura nel 1985), hanno trovato una risposta “prussiana”: una risposta nella quale la conciliazione “dall’alto” non ha mai nascosto l’intenzione esplicita di mantenere marginalizzate o represse — in qualsiasi modo, fuori dell’ambito delle decisioni — le classi e strati sociali "subalterni"[15]. Pertanto, la transizione del Brasile verso il capitalismo (e in ciascuna fase del capitalismo la fase susseguente) non accade soltanto nel quadro della riproduzione ampliata della dipendenza, ossia con il passaggio dalla subordinazione formale alla subordinazione reale di fronte al capitale mondiale; in stretta relazione con questo (giacché una soluzione non prussiana della questione agraria assicurerebbe le condizioni per lo sviluppo di un capitalismo nazionale non dipendente), questa transizione si è verificata anche secondo il modello della “modernizzazione conservatrice” di tipo prussiano [16].
Tra le varie conseguenze della “via prussiana” o “rivoluzione passiva”, c’è ne una di particolare rilevanza anche sul piano della cultura: dato che lo strumento e lo spazio della conciliazione delle classi e frazioni di classe è stato sempre lo Stato, si è verificato un rafforzamento di quello che Gramsci chiama la “società politica” (gli apparati burocratici e militari che esercitano la dominazione attraverso il governo) a detrimento della “società civile” (quel complesso di apparati ideologici mediante i quali una classe, o un blocco di classi, lotta per l’egemonia o per la capacità di dirigere il complesso della società). Ora, questo modello di evoluzione politica e i suoi risultati sovradeterminano — e conseguentemente alterano — il modo di relazionarsi “classico” (nel senso che Marx dà a questa parola) tra gli intellettuali e le classi sociali.
In primo luogo, la debolezza della società civile è responsabile della minimizzazione di uno dei ruoli essenziali della cultura, proprio quello di esprimere la coscienza sociale delle classi a confronto e di organizzare l’egemonia ideologica di una classe o di un blocco di classi sul complesso dei suoi alleati reali o potenziali. La cultura brasiliana è diventata così, in gran parte, una cultura “ornamentale”, giacché non esisteva (o era eccessivamente debole) il medium proprio della vita culturale: la società civile. In secondo luogo, uno dei modi di isolare i gruppi popolari dai processi politici fu proprio quello di “assimilare” i loro virtuali rappresentanti ideologici, includendoli — naturalmente in posizione subordinata — nei nuovi blocchi di potere che già provenivano dai processi di conciliazione dall’alto. Questo si fa, essenzialmente, attraverso vari meccanismi di cooptazione degli strati medi (in particolare degli intellettuali) da parte delle classi dominanti, un processo che Gramsci chiamava "trasformismo". Questi meccanismi vanno dal “favore” concesso a uomini liberi ma non proprietari nell’epoca della schiavitù, passano per il reclutamento della burocrazia civile e militare a partire dall’epoca del Secondo Impero e soprattutto dal periodo di Getulio Vargas (1930-1945), e arrivano fino alla recente creazione, promossa dalla dittatura militare impiantata nel 1964 e sconfitta nel 1985, mediante meccanismi di ridistribuzione del reddito, di un settore privilegiato di tecnocrati dotati di alto potere di consumo.
Lo scarso peso degli apparati privati di egemonia e dei partiti politici di massa nella formazione sociale brasiliana — dove “lo Stato era tutto [e] la società civile era primitiva e gelatinosa” [17] — ha condannato gli intellettuali che rifiutavano la cooptazione nel sistema dominante alla marginalità sul piano culturale e, per esprimerci con una certa volgarità, a serissimi problemi sul piano della sussistenza economica [18]. E questo per non parlare della repressione politica diretta contro gli intellettuali che tentavano di legarsi agli strati popolari (o che sono da essi prodotti), repressione che non è stata mai in Brasile un fenomeno marginale nella storia delle relazioni tra gli intellettuali e lo Stato. Abbiamo, così, un chiaro “squilibrio” nella lotta culturale: mentre le classi dominanti trovano con relativa facilità i loro rappresentanti ideologici o i loro “intellettuali organici” (vedremo presto che finanche la cultura “ornamentale” serve ideologicamente alla conservazione sociale), gli strati popolari sono frequentemente “decapitati” e lottano con grandi difficoltà per dare una figura sistematica alla loro autocoscienza ideologica. Basti pensare ai paesi che non hanno seguito una “via prussiana” al capitalismo (come la Francia) o che hanno superato successivamente i suoi effetti (come l’Italia post-fascista), per comprendere le differenze con il caso brasiliano.
Il complesso di questi presupposti prepara una situazione favorevole a che la cultura si sviluppi in quel clima asfissiante che — avvalendomi di una espressione di Thomas Mann, raccolta da Lukács — ho chiamato, in altro luogo, “intimismo all’ombra del potere” [19]. Questo intimismo si lega direttamente al problema dell’ornamentalità della cultura. Il processo di cooptazione non obbliga necessariamente l’intellettuale cooptato a collocarsi direttamente al servizio delle classi dominanti in quanto ideologo; ossia, non lo obbliga a creare o a difendere apologie ideologiche dirette dell’esistente. Ciò che la cooptazione fa è indurlo — mediante varie forme di pressione, sperimentate coscientemente o incoscientemente — ad optare per formulazioni culturali anodine, “neutre”, socialmente asettiche. L’”intimismo all’ombra del potere” gli lascia un campo di manovra o di scelta apparentemente ampio, ma i cui limiti sono determinati proprio dal tacito compromesso di non porre in discussione i fondamenti di quel potere alla cui ombra egli è libero di coltivare la propria “intimità” [20].
All’interno di questo spazio chiuso a un contatto organico con la realtà del popolo-nazione, l’intellettuale cooptato può sperimentare il proprio isolamento non come un’apprezzabile “torre d’avorio”, ma come una “dannazione” dalla quale non si può liberare. Se la maggior parte delle ideologie o delle opere d’arte create sul terreno dell’”intimismo” sono apologetiche, esse lo sono in quel senso mediatizzato che Lukács — partendo dall’idea che non esiste ideologia socialmente “innocente” — ha riassunto nell’espressione “apologia indiretta” dell’esistente [21]. Per esempio: nel caso brasiliano, il culto dell’evasione soggettivista nel vecchio romanticismo o nella cosiddetta controcultura degli anni 60-70, il pessimismo ontologico dei naturalisti, lo scientificismo (che si pretende antiideologico) degli strutturalisti, ecc., sono apologia dell’esistente soltanto nella misura in cui allontanano dall’ottica dell’arte o della scienza sociale le contraddizioni concrete della realtà, in cui trasformano l’essenziale in inessenziale o viceversa, oscurando o impedendo una giusta coscienza dei problemi effettivi del popolo-nazione. (Per evitare malintesi: la relazione che stabilisco qui tra cooptazione e “intimismo” è una relazione tendenziale, che — se è valida per la media — non lo è evidentemente per ciascun caso singolo). Il contenuto della cultura brasiliana è contrassegnato, in vari modi, da questo modo specifico, "prussiano" o "passivo", di transformazione dall'alto. Innanzitutto, sorgono in Brasile manifestazioni esplicite dell’ideologia “prussiana”, che — in nome di una visione apertamente elitista e autoritaria — difendono l’esclusione delle masse popolari da qualsiasi partecipazione attiva nelle grandi decisioni nazionali. Citando dichiarazioni in questo senso di pensatori come Farias Brito, Gilberto Freyre, Oliveira Vianna, Miguel Reale, Francisco Campos, Eugenio Gudin e altri, Leandro Konder così sintetizza l’essenza del pensiero autoritario e di destra in Brasile: “Il pluralismo dell’ideologia della destra presuppone un’unità sostanziale profonda, fissa: tutte le correnti conservatrici, religiose o laiche, ottimiste o pessimiste, metafisiche o sociologiche, moraliste o ciniche, scientificiste o mistiche, concordano in un determinato punto essenziale: impedire che le masse popolari si organizzino, rivendichino, facciano politica e creino una vera democrazia”[22].
Ma l’elitismo antipopolare non appare soltanto in pensatori autoritari e di destra. La conciliazione sociale e politica trova un riflesso ideologico nella tendenza del pensiero brasiliano all’eclettismo, ossia alla conciliazione egualmente sul piano delle idee. Forti contaminazioni di “prussianesimo” appaiono così anche nel nostro pensiero liberale, facendolo diventare a volte accentuatamente moderato e anche conservatore [23]. Il liberale difende il mutamento che è diventato necessario, avvalendosi pertanto di formulazioni ideologiche progressiste; ma, allo stesso tempo, respinge le conseguenze ultime del progresso, per timore esplicito dell’”anarchia” o del “caos” che viene dal “basso”, delle forze popolari ancora “immature”. Possiamo trovare, nella vita ideologica brasiliana, tutta una serie di formulazioni che — per il loro spirito e anche per le loro parole — anticipano la celebre dichiarazione di uno dei leader della cosiddetta Rivoluzione del 1930: “Facciamo la rivoluzione prima che la faccia il popolo”.
Vediamone alcuni esempi. Alla vigilia dell’Indipendenza, il liberale Hipolito da Costa — dal suo esilio londinese — già affermava: “Nessuno desidera più di noi le riforme utili, ma nessuno aborrisce più di noi che queste riforme siano fatte dal popolo”. E quando, dopo l’Indipendenza, un liberale considerato avanzato come Evaristo da Veiga difende la Costituzione contro il pericolo dell’assolutismo, non esita a dire: “Si modifichi il nostro patto sociale, ma si conservi l’essenza del sistema adottato. (…). Si faccia tutto quanto è necessario, ma si eviti la rivoluzione” [24].
Questa tendenza all’eclettismo, alla conciliazione ideologica, non si manifesta soltanto nei pensatori liberali moderati. Finanche intellettuali progressisti, per niente legati nella loro attività culturale o politica alle tendenze "intimiste" e allo spirito della conciliazione/cooptazione, sono spinti dalla situazione oggettiva a confuse sintesi eclettiche, che minimizzano o danneggiano seriamente il carattere in ultima istanza progressista dell’ideologia che professano. Nelson Werneck Soudré ha registrato processi di questo tipo nella produzione di Euclides da Cunha, che combinava dichiarazioni di simpatia per il socialismo con l’accettazione di elementi ideologici di fondo razzista [25]. Potremmo ancora ricordare altri esempi. Basti pensare al modo con il quale i leader della Rivoluzione Praiera del 1848, come ad esempio Antonio Pedro de Figueiredo, tentavano di combinare elementi del socialismo utopico con l’eclettismo spiritualista moderato, ispirato a Victor Cousin; alla bizzarra sintesi di marxismo e positivismo tentata da Leonidas de Rezende, negli anni Trenta del XX secolo; all’infiltrazione di posizioni irrazionalistiche nella ricerca sociologica e filosofica dell’ISEB[26], essenzialmente rivolta ad una analisi critica e razionale della nostra realtà; o nella “coesistenza pacifica”, in alcuni degli intellettuali strutturalisti dei nostri giorni, di posizioni politiche di sinistra con una metodologia di tipo neopositivista (e, come tale, filosoficamente reazionaria) [27].
Tutti questi esempi pretendono mostrare che la tendenza al confusionismo ideologico, all’eclettismo teorico obiettivamente “moderato” (dove gli elementi progressisti sono “temperati” con elementi reazionari), non risulta semplicemente da una scelta soggettiva degli intellettuali, da un eventuale opportunismo costitutivo di essi, piuttosto dal condizionamento oggettivo della nostra formazione storica e sociale. Sfuggire alla “via prussiana” e alle sue conseguenze anticulturali non è un movimento che dipenda soltanto dalla disposizione personale degli intellettuali. Il coraggio e la rettitudine morale sono certamente necessari, ma non sufficienti. Dato che alla radice dell’”intimismo” è la separazione tra gli intellettuali e la realtà nazional-popolare, una separazione posta e imposta dalla “via prussiana”, l’antidoto contro il veleno non può essere prodotto semplicemente nel laboratorio immanente della propria cultura: il superamento dell’”intimismo”, tanto al livello personale quanto a quello sociale, passa per l’organica integrazione degli intellettuali con la lotta delle classe subalterne per affermarsi come soggetti effettivi della nostra evoluzione sociale e politica. Una lotta che abbia come meta la distruzione dell’elitarismo implicito nella “via prussiana”, con la conseguente apertura di un processo di rinnovamento democratico che coinvolga tutte le sfere dell’essere sociale brasiliano.

3. Il nazional-popolare come alternativa alla cultura “intimista”.
Senza nessuna pretesa di esaurire la questione, presenteremo di seguito alcune determinazioni essenziali del nazional-popolare in quanto tendenza alternativa nel seno della cultura brasiliana. Innanzitutto, è fondamentale risaltare che tali determinazioni — per lo meno questa è la mia convinzione — non risultano da una scelta personale, non sono norme arbitrarie che io pretenda imporre dal di fuori alla pratica creatrice di artisti e ideologi. Sono determinazioni poste ed imposte da un movimento culturale effettivamente esistente nel corso della storia del Brasile, sebbene in posizione quasi sempre subalterna: un movimento che, malgrado le (o grazie alle) sue numerose diversità interne, si unifica in quanto alternativa reale alla cultura “ornamentale” o “intimista”, la quale, per le ragioni sopra esposte, ha occupato una posizione tendenzialmente egemonica nel corso della storia della nostra vita culturale. In questo senso, il nazional-popolare appare oggettivamente come opposizione democratica, sul piano della cultura, alle varie configurazioni concrete assunte dall’ideologia del “prussianesimo” nel corso dell’evoluzione brasiliana.
Nonostante che la situazione italiana diverga in molti punti da quella brasiliana, credo che la definizione gramsciana di nazional-popolare — proprio nella misura in cui Gramsci la concepisce come alternativa alla cultura elitaria, generata in Italia dalla predominanza della “rivoluzione passiva” come forma di trasformazione sociale e dal conseguente processo di “trasformismo” (di cooptazione) degli intellettuali [28] — può contribuire grandemente ad illuminare alcune contraddizioni anche della nostra vita culturale. “In Italia — osserva Gramsci — il termine ‘nazionale’ ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con ‘popolare’, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla ‘nazione’ e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso. […] Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d’origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso”[29]. La descrizione gramsciana si adegua molto bene al caso brasiliano: il nazional-popolare, così, è — visto dal lato negativo — innanzitutto la rottura di questo distanziamento tra gli intellettuali e il popolo, distanziamento che è alla radice della fioritura della cultura “intimista” o dell’elitarismo culturale e che, più delle volte, non risulta da una scelta volontaria dell’intellettuale.
Ma si tratta di disfare già un possibile malinteso riguardo alla natura del nazional-popolare. Come abbiamo visto, la cultura brasiliana si vincola organicamente — tanto nel suo versante reazionario quanto in quello democratico e progressista — al patrimonio culturale universale, che gli è servito e gli serve come ispirazione e alimentazione permanente. Così, se il nazional-popolare è essenzialmente una forma di articolazione tra gli intellettuali e il popolo (che fa di questi intellettuali, nell’espressione di Gramsci, degli “intellettuali organici” delle correnti popolari), esso non può essere inteso, in ciò che si riferisce alle sue figure concrete e al suo contenuto, come qualcosa di opposto all’universale, come semplice affermazione delle nostre pretese radici culturali “autonome” contro la penetrazione del “cosmopolitismo alienato”, ecc. Certamente, non si tratta di affermare che tale atteggiamento astrattamente cosmopolita non esista in Brasile: esso si manifesta sempre ché la ricezione di una corrente culturale universale si compia tra di noi in un modo astratto, senza alcun tentativo di concretizzarlo e arricchirlo nel confronto con la realtà brasiliana. Con altre parole più precise: c’è cosmopolitismo astratto tutte le volte che l’”importazione” culturale non ha come obiettivo di rispondere alle questioni poste dalla propria realtà brasiliana, ma mira soltanto a soddisfare esigenze di un circolo ristretto di intellettuali “intimisti”. In questo senso, possiamo affermare che questo atteggiamento “cosmopolita” è una delle manifestazioni della cultura elitaria e non nazional-popolare: è perché sono separati dal popolo, rinchiusi nei limiti dell’”intimismo”, che certi intellettuali sono incapaci di effettuare quella concretizzazione e quel arricchimento del patrimonio universale.
Per questo, è necessario insistere risolutamente sul fatto che il nazional-popolare non si confonde — anzi, è in contrasto — con la chiusura provinciale e popolaresca davanti alle conquiste effettivamente progressiste della cultura mondiale [30]. Per le ragioni genetico-sociali alle quali ho già alluso, una tale chiusura da parte di artisti o pensatori progressisti, questo cosiddetto “nazionalismo culturale” conduce a seri equivoci, che si esprimono nell’impoverimento dell’espressione estetica e/o nella limitazione delle potenzialità critiche della coscienza ideologica delle forze popolari. Perciò, in verità, il “nazionalismo culturale” trova affinità elettive molto più grandi con le forze reazionarie, assumendo quasi sempre i tratti di un’ideologia retrograda. In questo caso, non è che si difenda una supposta cultura nazionale autonoma contro la cultura straniera, ma prima si designa come “nazionale” l’arretratezza brasiliana, gli elementi anacronistici della nostra struttura sociale, allo stesso tempo in cui si lotta contro l’”idealismo” e la “mancanza di realismo” della cultura progressista mondiale quando è comparata alla nostra vita sociale concreta. Ciò è molto chiaro, per esempio, in Azevedo Amaral, uno dei principali teorici dell’autoritarismo in Brasile: “Contro questo orientamento [della democrazia liberale], nel senso dell’universalizzazione artificiale di un regime politico, si erge la reazione vigorosa dello spirito contemporaneo con l’affermazione dell’idea nazionale”[31].
Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Se osserviamo la nostra storia, vedremmo facilmente che tale “nazionalismo culturale”, a partire dall’epoca della lotta della Corona portoghese contro la penetrazione delle idee illuministe in Brasile fino ai recenti attacchi della dittatura militare iniziata nel 1964 contro il marxismo, in combinazione con la difesa fatta da un dittattore di una “democrazia relativa” (“adeguata” cioè alla realtà brasiliana), questo "nazionalismo" è servito sempre per impedire — in nome del rifiuto di “ideologie esotiche” contrarie all’”indole” del nostro paese — la concreta assimilazione degli strumenti ideologici capaci di condurre effettivamente il popolo brasiliano alla sua affermazione nazionale e democratica. Perciò ha ragione uno studioso brasiliano quando osserva: “La preoccupazione di adattare, di aggiustare l’esperienza straniera alle condizioni nazionali, decorre dallo stesso spirito di conciliazione”[32]. In altre parole: il “nazionalismo culturale” è una delle principali manifestazioni ideologiche della “via prussiana” antipopolare. (E’ chiaro che nulla ha a che vedere con questo “nazionalismo culturale” retrogrado la lotta contro la penetrazione dei prodotti culturali alienati, imposti al nostro popolo soprattutto mediante i moderni mezzi di comunicazione di massa; come vedremo più avanti, una delle caratteristiche del nazional-popolare è proprio la capacità di distinguere tra il valido e il non-valido nel seno del patrimonio culturale universale).
Un altro errore sarebbe quello di identificare il nazional-popolare con un determinato stile o con una determinata tematica, sul piano estetico, o con una posizione ideologica, sul piano del pensiero sociale[33]. Sono espressioni del nazional-popolare, per esempio, sia As memorias de um sargento de milicias di Manuel Antonio de Almeida, che si valgono di uno stile realista tradizionale, sia A meditação sobre o Tietê di Mario de Andrade, che ricorre alle conquiste tecnico-espressive del modernismo e dell’avanguardia. Ma si può dire che, mediante queste variazioni stilistiche necessarie, c’è un metodo artistico comune — il metodo del realismo critico (nell’accezione che Lukács dà di questo concetto) — che unifica nella diversità le varie espressioni concrete del nazional-popolare sul terreno estetico. Questa idea dell’unità del nazional-popolare, però, non deve portare in nessun modo alla negazione del suo radicale pluralismo. Come Lukács ha osservato: “L’opera d’arte autentica — e questa soltanto può diventare la base di una feconda universalizzazione storico o estetica — soddisfa alle leggi estetiche solo in quanto nello stesso tempo le allarga e le approfondisce” [34]. Non ci sono così norme a priori per l’arte di ispirazione nazional-popolare: è diritto e dovere di ciascun artista esercitare la massima libertà di creazione, nel senso di trovare il proprio modo peculiare di ampliare e approfondire le leggi estetiche del genere dentro il quale lavora. Pertanto, l’unità dell’arte nazional-popolare è qualcosa soltanto tendenziale, che può solo essere stabilito post festum, e che perciò è in permanente modificazione; oltre tutto, è un’unità nella diversità, che prende la sua forza e vitalità dall’ampio pluralismo di stili artistici, di tematiche, di tendenze ideologiche, ecc.
Lo stesso pluralismo costitutivo può essere indicato nel caso del pensiero sociale. Così è possibile costatare la presenza di una coscienza nazional-popolare tanto nelle teorie pedagogiche di Paulo Freire, ispirate a una concezione esistenzialistica dal fondamento cristiano, quanto nelle ricerche o nelle proposte politiche basate sui principi del materialismo storico. Mentre il realismo come metodo (e non come stile) può essere considerato il fattore che unifica a posteriori il nazional-popolare sul terreno estetico, nel caso del pensiero sociale questo fattore mi sembra risiedere su una concezione umanista e storicistica del mondo, ossia su una concezione che afferma il ruolo della prassi nella trasformazione delle strutture sociali e che concepisce la scienza come uno degli strumenti per illuminare e guidare questa prassi trasformatrice. (Conviene qui ricordare ancora l’efficacia del concetto engelsiano-lukacsiano della “vittoria del realismo”: tanto sul piano del pensiero sociale quanto soprattutto su quello dell’arte, non è condizione necessaria per la realizzazione di un prodotto nazional-popolare l’adozione cosciente da parte del produttore culturale di un’ideologia o concezione del mondo esplicitamente progressista; anche qui, solo post festum è possibile — a partire da un’analisi concreta di ciascun caso concreto — definire il carattere nazional-popolare o no di un prodotto culturale singolare).
Del resto, si deve evitare attentamente che, sul piano dell’oggettivazione estetica, si confonda il nazional-popolare con l’imposizione di una tematica predeterminata. La coscienza artistica nazional-popolare si manifesta non nella tematica, piuttosto nell’angolo d’abbordaggio, nel punto di vista a partire dal quale il creatore struttura la sua opera. Per quanto ne sappia, fu Machado de Assis, il più grande romanziere brasiliano, il primo ad indicare esplicitamente questa determinazione fondamentale del nazional-popolare: “Su questo punto, si manifesta alle volte un’opinione che ritengo erronea: è quella che riconosce solo lo spirito nazionale nelle opere che trattino di argomenti locali (…). Ciò che si deve esigere dallo scrittore, prima di tutto, è un certo sentimento intimo, che lo faccia divenire un uomo del suo tempo e del suo paese, anche quando tratta di argomenti remoti nel tempo e nello spazio”[35]. Una questione importante è sapere quale è il contenuto sociale, di classe, di questo angolo nazional-popolare di abbordaggio del reale. Ma anche qui vale il principio dialettico che “la verità è sempre concreta”. Solamente l’analisi concreta di ciascun periodo è capace di indicare quale classe (o blocco di classe) è capace di costituirsi in classe effettivamente nazionale — cioè, di superare una visione fondata nei suoi stretti interessi “economico-corporativi” — e, in questo modo, di servire da supporto per la formulazione di una figura culturale di tipo nazional-popolare, ossia con dimensione “etico-politica”. (Mi avvalgo qui di categorie gramsciane). E questo vincolo con la concretezza nazional-popolare non entra affatto in contraddizione con il carattere universalizzante di ogni grande creazione artistica. Al contrario di un’oggettivazione di scienza naturale, la cui validità immanente non ha nulla a che vedere con le condizioni storiche o nazionali che rendono possibile il suo sorgere, ogni prodotto estetico incorpora i suoi presupposti — la sua genesi storico-nazionale — come momento ineliminabile della sua struttura specificamente artistica. Così, quanto più un artista si vincola alla totalità delle contraddizioni del suo popolo e della sua nazione, quanto più diventa (come direbbe Machado) “uomo del suo tempo e del suo paese”, tanto più gli sarà possibile elevarsi a quel livello di particolarità — di universalità concreta — senza la quale non esiste grande arte.
C’è ancora un’altra determinazione del nazional-popolare che mi sembra importante rilevare. Mi riferisco alla capacità di distinguere, a partire dall’angolo di visione proprio di una classe concretamente nazional-popolare, tra gli elementi della cultura universale che servono effettivamente al popolo-nazione (nel senso di aumentargli il grado di autocoscienza) e quelli che conducono al vicolo cieco dell’”intimismo” indirettamente apologetico o a posizioni chiaramente reazionarie. Anche su questo punto, l’esempio di Lima Barreto mi sembra significativo. Malgrado non fosse un teorico di professione, Lima ha sempre rivelato un profondo istinto nazional-popolare nelle sue valutazioni del patrimonio culturale universale. E’ stato il caso quando, in contrasto con molti dei suoi contemporanei coinvolti dall’”intimismo”, ha ridicolizzato le bravate pre-fasciste del “modernista” D’Annunzio a Fiume, contrapponendogli la solidità nazional-popolare dell’azione di Lenin e di Trotzski di fronte al giovane Stato sovietico; o quando, riferendosi a Nietzsche, lo ha trattato come uno dei responsabili ideologici dello spirito bellicista che è culminato nella Prima Guerra Mondiale imperialista; o ancora quando ha espresso, prima di morire, una posizione scettica davanti all’importazione acritica di certe mode letterarie europee (come il futurismo), ma senza per questo smettere di raccomandare ai giovani scrittori che si ispirassero agli esempi “europei” di Dostoevskj, Tolstoi o Gorki [36]. Per Lima Barreto, così, non si trattava di contrapporre il “nazionale” allo “straniero”, ma di distinguere, nel seno del patrimonio culturale divenuto universale, tra ciò che potrebbe diventare elemento organicamente nazional-popolare della nostra stessa cultura o, al contrario, ciò che servirebbe per rinforzare il predominio delle correnti elitarie e “intimiste”.
E, come ogni manifestazione culturale significativa, il nazional-popolare presenta anche quello che potremmo chiamare la sua “malattia infantile”. (“Infantile” non in senso cronologico, ma in quanto espressione di uno scarso livello di maturità: ciò vuol dire che la “malattia infantile” può coesistere o anche verificarsi in manifestazioni mature del nazional-popolare). Possiamo considerare questa versione “infantile”, schematicamente, come manifestazione della “cattiva coscienza” dell’intellettuale intimista, che desidera più o meno sinceramente identificarsi con il popolo, ma che è incapace di farlo “dal di dentro”, assumendo la “coscienza possibile” delle classi popolari come punto di vista strutturante delle sue creazioni: il legame di questo intellettuale con il popolo è così — per usare un’espressione di Gramsci precedentemente citata — “soltanto retorica”. Da questa identificazione retorica, “da fuori”, sorge un atteggiamento paternalistico, che si può esprimere concretamente in diversi modi: le reali contraddizioni popolari appaiono dissolte in un ambiente di fantasia; si attribuisce al popolo valori idealizzati propri dello strato intellettuale; le figure popolari sono trattate come bambini simpatici, ma pur sempre come bambini, ecc. Questa varietà non impedisce che la versione “infantile” del nazional-popolare — che sarebbe più giusto chiamare populismo — sbocchi quasi sempre, dal punto di vista stilistico, in una specie di retorica romantica e/o di naturalismo fondato nell’esplorazione del pittoresco. Esempi: i romanzi indigenisti di Alencar, il “romanticismo rivoluzionario” del primo Jorge Amado, certe produzioni teatrali del CPC[37], molte delle canzoni di protesta degli inizi e della metà degli anni Sessanta, un modo di concepire la “poesia impegnata” del quale Thiago de Mello è diventato forse la più tipica espressione, ecc. E forse non sarebbe errato — davanti a certi fenomeni culturali contemporanei — parlare anche di una “malattia senile” del nazional-popolare. Essa si manifesta quando certi elementi di questo orientamento realista e storicista, spogliati però della loro intenzione critica e totalizzante, sono utilizzati in prodotti caratteristici di un’arte puramente ”gradevole”, digestiva o commerciale, il cui valore estetico è praticamente nullo e le cui implicazioni ideologiche sono frequentemente negative. Il mezzo di propaganda privilegiato di questa “malattia senile” è certamente l’industria culturale: è così che possiamo facilmente rilevare l’uso castrato del nazional-popolare in varie telenovelas o in molti dei film prodotti per il cosiddetto “grande pubblico”. Il fenomeno si manifesta anche nel campo della letteratura o della musica popolare [38].

4. Le condizioni attuali della lotta per la democratizzazione della cultura
Sotto molti e fondamentali aspetti, il colpo di Stato del 1964 — e la nuova situazione che si è instaurata nel paese — ha segnato una divisione delle acque anche nella sfera della vita culturale. L’ingresso del Brasile nell’epoca del capitalismo monopolista di Stato CMS — ingresso facilitato e pressato dalla dittatura militare — ha portato importanti alterazioni nella sfera della sovrastruttura, sia dello Stato in senso stretto sia nel complesso degli organismi della società civile; e questo non poteva non avere conseguenze sul terreno della produzione culturale. Non pretendo di fermarmi qui su certi fenomeni, quelli che si esprimono in modo più evidente nella generalizzazione della censura come pratica di relazione tra il potere e la cultura; tali fenomeni, riflettendo il tentativo di rompere l’autonomia della società civile e di reprimere il suo pluralismo in nome dell’onnipotenza dello Stato, sono soltanto l’aspetto più saliente dell’azione del nuovo regime politico richiesto dall’instaurazione del CMS in un paese dal capitalismo sottosviluppato e, perciò stesso, dipendente[39]. La pratica sistematica della censura, alleata a un chiaro terrorismo ideologico, può essere considerata come l'aspetto più evidente della “politica culturale” vigente dopo il 1964 e, in particolare, nel periodo successivo al 1968, ossia al decreto del AI-5[40]. Sarebbe semplicistico ridurre a ciò il quadro delle relazioni tra la cultura e la società negli ultimi anni; ma sarebbe ancora più pericoloso dimenticare che tale aspetto ha condizionato, mediante certamente molteplici mediazioni, la totalità della produzione culturale sotto la vigenza della dittatura militare.
Non si può dimenticare, però, che l’efficacia — relativa — di questo aspetto apertamente repressivo ha operato in un quadro per la cui caratterizzazione globale hanno contribuito anche altre determinazioni, sia quelle legate al passato (che sono state riprodotte e ampliate, in ciò che avevano di negativo, dopo il 1964), sia quelle generate dai nuovi elementi introdotti nella nostra formazione economico-sociale dal processo di crescente monopolizzazione del capitale. Il ruolo delle determinazioni ereditate e riprodotte è di immediata identificazione: accentuando i tratti repressivi della “via prussiana”, elevando a un livello superiore l’esclusione degli strati popolari dei processi di decisione politica, la dittatura rinforzava anche — direttamente, ma soprattutto indirettamente — il ruolo delle tendenze culturali “intimiste”, stimolando la fioritura di una cultura neutralizzante e socialmente asettica. (Ciò era fatto, in particolare, mediante la repressione delle correnti nazional-popolari, aprendo così uno spazio per un quasi monopolio di fatto delle correnti “intimiste”). L’epoca del cosiddetto “vuoto culturale”, che sarebbe meglio designare come l’epoca della cultura svuotata — e che domina soprattutto, diciamo, nel periodo 1969-1973 —, ha rappresentato il momento in cui la confluenza della censura/repressione con le tradizioni “intimiste”/neutralizzanti ha raggiunto quello che un tecnocrate potrebbe chiamare “punto ottimo” nel tentativo di marginalizzazione delle correnti nazional-popolari e, conseguentemente, di rimozione del pluralismo come tratto dominante della nostra vita culturale.
Quando ho alluso a nuove determinazioni, ho pensato essenzialmente al grande stimolo offerto dal CMS all’espansione e alla consolidazione di una poderosa industria culturale su basi non soltanto capitalistiche (il che già stava accadendo prima del 1964), ma sempre più monopoliste e di Stato. Il processo colpisce più duramente, certamente, i grandi mezzi di comunicazione di massa, come la televisione, la grande stampa, la produzione di dischi, il cinema, ecc.; ma gli effetti della monopolizzazione si fanno egualmente sentire sull’industria editoriale e la produzione teatrale, sebbene qui la presenza di imprese medie e finanche di piccole dimensioni assicurino un maggiore pluralismo di orientamenti e, in conseguenza, una fascia di autonomia ben più consistente. D’altro lato, l’università — in quanto importante fattore di produzione e riproduzione culturale — è stata sottomessa non soltanto a processi repressivi diretti, ma anche ad una crescente “razionalizzazione” in senso capitalista, a forme di divisione del lavoro intellettuale che, adeguandosi ai meccanismi di riproduzione del capitale, mettono in difficoltà enormemente, al suo interno, la formazione e sistematizzazione di una cultura critica e globalizzante. Pertanto, le due tendenze —repressiva e monopolista “razionalizzatrice” — contribuivano a deprimere fortemente la presenza di un quadro pluralista anche nella ricerca e nell’insegnamento universitario. Immediatamente, questo processo di monopolizzazione dell’industria culturale ha generato una forte espansione quantitativa dei cosiddetti beni culturali, che, innanzitutto, è servito ad occultare il fenomeno del vuoto culturale, che è ovviamente un fenomeno di natura qualitativa. (Un processo simile avviene nella produzione universitaria; qui, la “modernizzazione conservatrice” ha reso possibile un livello di formazione tecnico-formalistica o empirista elevato, che nasconde spesso la povertà contenutistica e lo svuotamento sociale che segnano con frequenza l’insegnamento universitario e le opere generate nell’ambito universitario). Inoltre, sarebbe ozioso ricordare il fatto che la generalizzazione della “logica” capitalistica e monopolista sul piano della cultura provoca uno spontaneo privilegiare del valore di scambio sul valore d’uso degli oggetti culturali, il che apre il cammino alla creazione e diffusione di una pseudocultura di massa che, trasmettendo valori alienati, serve come strumento di manipolazione delle coscienze al servizio della riproduzione dell’esistente. Tale privilegiare non si manifesta soltanto nella diffusione della “malattia senile” del nazional-popolare, alla quale mi sono già riferito; più grave è il fatto che esso porta all’importazione in serie di prodotti pseudoculturali generati nei paese imperialisti, frequentemente preferiti dai mass media in quanto più a buon mercato che i prodotti nazionali. E ciò non ha conseguenze deleterie soltanto sul terreno culturale e ideologico in sé; questa importazione minaccia anche il lavoro e la sopravvivenza di numerosi artisti e intellettuali brasiliani. Tutti questi fatti negativi dell’industria culturale —comuni a qualsiasi forma di capitalismo monopolista — hanno assunto in Brasile proporzioni ancora più catastrofiche nella misura in cui avvenivano nel quadro di un regime politico fondato sulla repressione e sull’arbitrio.
Un altro fattore negativo che non può essere assolutamente sottovalutato — tanto più che riproduce una delle tendenze più negative nella formazione dell’intellettualità brasiliana — è che l’industria culturale monopolista appare come un nuovo e poderoso mezzo di cooptazione degli intellettuali da parte del sistema di dominio, del quale questa industria culturale è oggi un ingranaggio importante. In altre parole: questa nuova industria culturale appare come una nuova ed efficiente forma di tagliare il legame degli intellettuali con la realtà nazional-popolare, della quale questi potevano essere — se gli organismi culturali della società civile fossero più pluralisti — un’”articolazione organica”, come disse Gramsci. Gli alti salari pagati dai monopoli della cultura hanno funzionato come vigorosi strumenti di cooptazione. D’altro lato, la divulgazione della cultura richiede adesso un “capitale minimo” (Marx) impensabile in epoche precedenti, quando predominavano metodi che potremmo chiamare artigianali o semi-artigianali. Sparisce così in gran parte la possibilità, per il produttore di cultura, di mantenersi autonomo e, come tale, indipendente; da professione liberale, il produttore di cultura diventa sempre più un salariato di grandi imprese, sottomesso in ultima istanza alla “logica” del massimo profitto e alle esigenze anticulturali di tali imprese. E’ certo che si tratta di un processo contraddittorio, giacché anche l’industria culturale presenta “brecce” e tollera margini di manovra; e queste “brecce” e margini potranno ampliarsi sostanzialmente nella misura in cui il processo di transizione verso un regime di libertà democratiche avanzi nel nostro paese, ossia nella misura in chi diminuisca l’azione repressiva diretta dello Stato sui mass media e questi si vedano costretti — dalla stessa pressione dei consumatori — a soddisfare alle domande culturali di una società civile più aperta e pluralista. Ma sarebbe pericoloso dimenticare, in nome di queste controtendenze, il fatto che la monopolizzazione capitalista dei mezzi di divulgazione culturale aumenta oggettivamente le già antiche difficoltà per la creazione e divulgazione tra di noi di una cultura nazional-popolare democratica e pluralista[41].
Non voglio in nessun modo tracciare un quadro unilateralmente pessimista. Malgrado questa triplice opposizione — della censura/repressione, dell’eredità elitaria dell’intellettualità, dell’espansione monopolista dell’industria culturale —, sarebbe assolutamente errato ignorare la presenza della corrente nazional-popolare, o più ampiamente, di una corrente culturale di opposizione democratica durante gli anni del regime militare. Questa presenza fu decisiva soprattutto in termini qualitativi. Ciò che di più espressivo si è creato in questa epoca — dall’Inquisitorial di José Carlos Capinam al Poema Sujo di Ferreira Gullar, da Quarup di Antonio Callado a Gota d’agua di Paulo Pontes e Chico Buarque, dalla Revista Civilização Brasileira alle ricerche del gruppo CEBRAP[42], per dare soltanto alcuni esempi — si inserisce certamente, attraverso di un’ampia pluralità di stili e di orientamenti ideologici, nella tendenza culturale che definiamo come nazional-popolare.
E non solo questo: finanche la parte più significativa degli autori (coscientemente o incoscientemente) legati alle correnti “intimiste” non ha esitato a collocarsi chiaramente in opposizione alle tendenze totalitarie e antipluralistiche della “politica culturale” della dittatura. E questa postura, in molti casi, è andata al di là dell’impegno di questi intellettuali in quanto cittadini, coinvolgendo anche la loro produzione culturale come tale. Vediamo un esempio concreto. Sotto molti aspetti, il movimento tropicalista ai suoi inizi — nella misura in cui tendeva a destoricizzare le contraddizioni concrete della realtà brasiliana e a eternizzarle in un’astrazione allegorica e irrazionalista (il Brasile come “assurdo”, ecc.) — può essere considerato espressione dell’”intimismo”. Ma non si deve tralasciare di registrare la presenza, nell’evoluzione del tropicalismo, di un salutare sforzo nel senso di conquistare all’arte brasiliana nuovi mezzi espressivi e, soprattutto, di esprimere una nuova tematica, risultante dal modo “prussiano” di instaurazione del CMS in Brasile (coesistenza di un sofisticato capitalismo di consumo con la conservazione dell’arretratezza nei mezzi rurali e nelle periferie urbane). Malgrado un elemento di unilateralità, la produzione “tropicalista” —come possiamo valutare oggi, molti anni dopo la sua apparizione — ha contribuito a superare gli evidenti limiti di un “populismo” che si compiaceva di “cantare” un ottimismo ingenuo e in ultima analisi smobilizzatore, nella vuota speranza che questo “canto” esorcizzasse il “buio” dominante. In verità, il tropicalismo non si opponeva al nazional-popolare, ma a quello che prima abbiamo chiamato la sua “malattia infantile”. Questa dialettica interna del movimento tropicalista — la contraddizione dinamica tra la conquista di una nuova tematica e la sua trattazione ancora tendenzialmente allegorica — portava i suoi migliori rappresentanti ad abbandonare progressivamente, in molte delle sue produzioni, l’allegoria irrazionalista e ad optare per una dura critica, per niente populista né ingenua, della quotidianità capitalista moderna che il CMS instaurava nel nostro paese. E’ stato così che produzioni come Janelas abertas del "tropicalista" Caetano Veloso (per dare soltanto un esempio) convergevano oggettivamente con Sinal Fechado di Paulinho da Viola o con Cotidianodi Chico Buarque (e anche qui mi limito ad esempi singolari), due cantautori chiaramente situati a sinistra, per creare nel nostro paese una musica nazional-popolare di alto livello, adeguata — nel suo pluralismo e nella sua complessità — ai bisogni dei nuovi tempi.
Questa tendenza d’opposizione alla dittatura, predominante nella cultura brasiliana dopo il 1964, riflette, innanzitutto, il fatto che il regime militare non ha mai ottenuto un consenso stabile negli strati medi urbani, da dove provengono — nella loro schiacciante maggioranza — i nostri intellettuali. Ma riflette anche, apparentemente, il processo di complessificazione e di differenziazione che lo sviluppo del capitalismo ha introdotto nella società brasiliana e, di conseguenza, nello stesso strato degli intellettuali. Questo processo comincia a manifestarsi già prima del 1964; la crescita di una società civile più ricca e articolata, appoggiata in gran parte alla dinamizzazione del movimento di massa, è responsabile della radicalizzazione politica degli intellettuali a partire dalla fine degli anni Cinquanta, una radicalizzazione che — malgrado alcuni limiti nazionalisti o “populisti” — puntava a rovesciare l’egemonia fino ad allora ottenuta dalle correnti “intimiste”. (E’ un periodo nel quale, l’Istituto Superiore di Studi Brasiliani–ISEB e il Centro Popolare di Cultura-CPC esercitano un ruolo importantissimo nella produzione culturale e artistica). Così, il regime instaurato nel 1964 trova già gli intellettuali in una posizione di ostilità e anche di opposizione aperta.
E’ certo che le misure prese immediatamente dal nuovo regime — dal ristabilimento aperto di un modo di dominazione politica imposto dall’alto verso il basso, fino al tentativo dittatoriale di rompere l’autonomia degli organismi della società civile (partiti, sindacati, università, associazioni professionali, organismi culturali, ecc.) — hanno rappresentato un duro colpo ai presupposti che si creavano, sebbene in modo embrionario, nel senso di un’egemonia culturale delle correnti democratiche o nazional-popolari[43]. Direttamente o indirettamente, il nuovo regime ha lottato per imporre le condizioni favorevoli al predominio della cultura elitaria. Ma sono stati vari fattori che hanno ostacolato, nel periodo iniziato nel 1964, l’emergenza effettiva di questa egemonia culturale del “intimismo”. Innanzitutto occorre ricordare la resistenza ideologica e politica, attiva o passiva, della maggioranza schiacciante degli intellettuali. E, in secondo luogo, si deve ricordare che la stessa modernizzazione economica promossa dal regime — sebbene fosse una modernizzazione conservatrice di tipo “prussiano” e dipendente e, perciò, antipopolare e antinazionale — ha scosso seriamente una delle basi sociali più solide della cultura “intimista”: il carattere di “favore” personale di cui si rivestivano i processi di cooptazione dell’intellettualità da parte del sistema dominante.
Il mercato della forza-lavoro intellettuale — spinto dall’emergere dell’industria culturale monopolizzata — ha fatto sì che gli intellettuali non siano più, per il semplice fatto di essere intellettuali, “mandarini” privilegiati ai quali il possesso della cultura fornisce prestigio e status. La generalizzazione delle relazioni capitaliste nell’ambito della cultura li va convertendo, nel momento stesso in cui aumenta il loro numero e fa diventare più complesse le loro funzioni, in lavoratori salariati al servizio della riproduzione del capitale. Ora, se ancora esiste la cooptazione, questa opera adesso attraverso i meccanismi impersonali del mercato; e questo mercato produce, tra le altre cose, differenziazioni salariali estreme tra le differenti categorie intellettuali. E questo per non parlare del sorgere di quello che potremmo chiamare “esercito culturale di riserva”, che si esprime nell’ampia disoccupazione o sotto-ocupazione di intellettuali, contribuendo inoltre ad abbassare i salari di coloro che conseguono una collocazione[44]. Così, al lato di una minoranza tecnocratica privilegiata, si amplia un settore dell’intellettualità — particolarmente il settore legato alle cosiddette “scienze umane”, ossia alla produzione ideologica e alla creazione artistica — per il quale l’aspettativa di cooptazione perde interamente la sua ragione d’essere[45]. Nella loro grande maggioranza, gli intellettuali comprendono, più o meno diffusamente, che il loro destino personale è legato organicamente alla fine della “via prussiana”; la costruzione di una società effettivamente democratica, dove la ricchezza e il pluralismo della società civile aprano spazi per la loro attuazione autonoma; la realizzazione di un “modello” di sviluppo economico non marginalizzante, che abbia negli strati salariati della popolazione (nei quali gli intellettuali sono oggi inclusi) il loro destinatario e il loro soggetto.
Insomma: si sono creati i presupposti infrastrutturali per una identificazione tra gli intellettuali e il popolo-nazione. Ma cosa fare affinché tali presupposti si convertano in risultato, portando a un’effettiva democratizzazione della cultura brasiliana? Innanzitutto c’è una battaglia da combattere sullo stesso piano della cultura. E il compito originario di questa battaglia ideologica, nel Brasile di oggi, è proprio quello di contribuire al superamento dell’elitarismo culturale per una trasformazione in senso nazional-popolare della cultura e dell’intellettualità brasiliana. Stimolando le opere che si incamminano nel senso del nazional-popolare e rivelando allo stesso tempo il vicolo chiuso (ideologico ed estetico) della visione del mondo elitaria o “intimista”, la critica — se fatta nel quadro del rispetto del pluralismo e della diversità, che sono tratti ineliminabili di ogni autentica cultura — potrà contribuire a un’espansione egemonica di una nuova cultura brasiliana effettivamente democratica, effettivamente nazional-popolare. Questa critica non può basarsi su criteri estetici stretti e normativi; non si tratta di imporre ai creatori certe “regole” arbitrariamente scelte. Gramsci pone la questione con grande lucidezza: "Non si riesce a intendere concretamente que l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il ‘contenuto’ dell’arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria. [...] Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una 'nuova cultura’ e non per una ‘nuova arte’ (in senso immediato) pare evidente”[46].
D’altro lato, lottare per l’espansione egemonica di un orientamento culturale —nel caso, dell’orientamento nazional-popolare — non può significare in alcun modo la negazione del pluralismo. La lotta per l’egemonia rispetta il pluralismo e di esso si alimenta su due livelli. In primo luogo, concepisce l’unità del nazional-popolare come un’unità nella diversità, come un’unità che prende la propria forza e la propria capacità espansiva dalla più ampia varietà di manifestazioni individuali. E, in secondo luogo, non soltanto riconosce la necessità sociale e il diritto all’esistenza di correnti non nazional-popolari, ma anche — in un quadro di una critica globale dei suoi eventuali limiti artistici e/o ideologici — ammette la possibilità concreta che produzioni culturali “intimiste” possano contribuire allo sviluppo di aspetti di un’arte o di una concezione del mondo effettivamente legata alla vita della nazione e del popolo. (Noi ci riferiamo già al fatto che correnti originariamente “intimiste”, come il tropicalismo, hanno contribuito decisivamente al superamento del “populismo” e alla maturazione del nazional-popolare nell’arte brasiliana di oggi; una stessa argomentazione potrebbe essere sviluppata in relazione al ruolo del "modernismo" nell’evoluzione della letteratura brasiliana successiva al 1922)[47]. Ma, come la stessa posizione di Gramsci pone in chiaro, i problemi della democratizzazione della cultura non si esauriscono nella definizione di una giusta prospettiva per la battaglia delle idee. C’è tutto un quadro sociale, economico e politico che deve essere creato affinché la cultura brasiliana possa effettivamente svilupparsi in forma non elitaria. E’ il quadro della democrazia pluralista di massa. In quanto regime che assicura le libertà formali fondamentali, la democrazia di massa garantisce il clima necessario per l’ampia fioritura della libertà di creazione e di critica, un clima nel quale l’influenza o l’egemonia di questa o di quella corrente proceda sempre più secondo i criteri immanenti al proprio meccanismo della dialettica culturale. D’altro lato, nella misura in cui assicura i canali necessari affinché la produzione culturale risponda ai problemi posti dalle grandi masse e ritorni ad esse per arricchirne l’autocoscienza, la democrazia di massa fa sì che il pluralismo della cultura sia espressione del pluralismo dinamico e della ricchezza effettiva della vita concreta delle varie classi e strati nazionali. Finalmente, giacché il suo carattere progressivo (di costante ampliamento e approfondimento) porta la democrazia di massa a proporre concretamente la democratizzazione dell’economia, con la lotta per porre fine alla dominazione dei monopoli, essa offre con ciò la possibilità concreta che i produttori di cultura si approprino socialmente dei mezzi di diffusione culturale di massa, oggi in gran parte sotto il potere dei monopoli; e non è necessario dire che ciò significherebbe, nel senso di rendere reale ed effettiva la libertà di creazione assicurata sul piano formale. In altre parole: solo la costruzione di una democrazia di massa può rompere definitivamente gli stretti limiti di casta in cui la “via prussiana” ha limitato la grande maggioranza dei nostri intellettuali e, in questo modo, creare un nuovo tipo di relazione — di doppio senso — tra gli intellettuali e il popolo-nazione; momento decisivo in questo processo sarà assicurato dall’autogestione degli organismi di diffusione culturale da parte degli stessi produttori culturali associati. Ora, su questo punto, la “questione culturale” — convertendosi in momento privilegiato della “questione democratica” — trova la base per la sua soluzione. Lottando per la democratizzazione della cultura, gli intellettuali combattono effettivamente per il rinnovamento democratico della vita nazionale nel suo complesso; e, allo stesso tempo, lottando per questo rinnovamento democratico, assicurano le condizioni più favorevoli all’espansione e alla fioritura della propria prassi culturale[48].

Rivista di studi portoghesi e brasiliani, n. 3, 2001

 

[1] Una sua versione portoghese è stata pubblicata in Cultura e sociedade no Brasil. Ensaios sobre idéias e formas, Rio de Janeiro, DP&A, 2000, pp. 37-80. La traduzione in italiano è di Antonino Infranca.
[2] K. Marx-F. Engels, Manifesto do Partito Comunista, in id. Obras escolhidas, Rio de Janeiro, Vitoria, 1956, vol. I, p. 29 [tr. it. P. Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 61-62].
[3] Per i concetti di subordinazione (o sussunzione) formale e reale, cfr. K. Marx, O Capital, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1968, Libro I, p. 585 e segg. [tr. it. D. Cantimori, Torino, Einaudi, 1975, pp. 621 e segg.]; e id., O Capital, Libro I, Capitolo VI (inedito), São Paulo, Ciencias Humanas, 1978, pp. 51-70 [tr. it. B. Maffi, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1247-1260]. Il passaggio dalla subordinazione formale alla reale, garantito dalla socializzazione delle forze produttive, crea i presupposti materiali affinché la produzione si liberi dalla sua forma sociale capitalista; allo stesso modo, potremmo dire che il passaggio corrispondente, in un’economia “periferica”, fa sorgere le basi materiali interne — nazionali — per il superamento della dipendenza al capitale internazionale.
[4] Uno dei principali difensori della tesi del “capitalismo coloniale brasiliano” è Caio Prado Jr. [Cf., per esempio, Formação do Brasil contemporâneo. Colônia, São Paulo, Martins, 1943]. Fernando Henrique Cardoso, a sua volta, parla di un “capitalismo incompleto” (cfr. Autoritarismo e democratização, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1975, pp. 104-106). La conseguenza più problematica della definizione del modo di produzione coloniale come capitalista è che così si finisce per ridurre il problema generale della transizione al capitalismo nel Brasile al problema più specifico dell’industrializzazione; con ciò, si perde la possibilità di operare in modo fecondo con la categoria della “via prussiana”, che denota precisamente un processo nel quale la transizione verso il capitalismo si dà con la conservazione di elementi pre-capitalistici, tanto nell’infrastruttura quanto nello Stato.
[5] Ad ogni modo, mi sembra di grande interesse il libro di Jacob Gorender, O escravismo colonial, São Paulo, Atica, 1978, certamente una delle più lucide riflessioni sul nostro modo di produzione nell’epoca coloniale.
[6] Sugli stimoli all’aumento della produttività nel feudalesimo, in contrasto con il blocco tecnologico dello schiavismo, cfr. Perry Anderson, Dall’antichità al feudalesimo, Milano, Mondadori, 1978, pp. 116 e segg.
[7] Tuttavia, dal punto di vista di questa transizione, la questione non si altera essenzialmente se si confermasse la presenza del feudalesimo in Brasile. E’ decisivo constatare che questa transizione “prussiana” si è data con la conservazione di forme di lavoro fondate sulla coercizione extra-economica, forme che, come si sa, sono caratteristiche tanto dello schiavismo quanto del feudalesimo. Riferendosi al Sud degli Stati Uniti, Lenin osservò: “Le sopravvivenze economiche dello schiavismo non si distinguono assolutamente in nulla da quelle del feudalesimo (…). Troviamo qui i passaggi della struttura schiavista –o feudale, il che in questo caso è lo stesso- dell’agricoltura verso la struttura mercantile e capitalista” (V. I. Lenin, “Nouvelles donnés sur les lois du développment du capitalisme dans l’agricolture”, in Ouevres, Paris, Editions Sociales, 1973, vol. 22, p. 21 e 106).
[8] E’ evidente che la cultura indigena e, in particolare, la cultura negra svolgono un ruolo decisivo nella formazione della nostra fisionomia culturale specificamente brasiliana. Ma questo ruolo si è svolto sempre nel quadro di un amalgama con le matrici europee (basti pensare, per esempio, al processo avvenuto nella musica popolare). Quando resistevano a questo amalgama, indipendentemente dal valore morale di questa resistenza, le culture india e negra si trasformavano o in folclore o nell’espressione di gruppi marginali. [9] A. Candido, Introdución a la literatura de Brasil, Caracas, Monte Avila, 1968, p. 27.
[10] Questa idea di una "estraneazione" strutturale della cultura brasiliana, a causa della situazione coloniale o semicoloniale, è stata la posizione dominante tra gli intellettuali legati all’ISEB [Instituto Superior de Estudos Brasileiros]. Su questo cfr. Caio Navarro de Toledo, ISEB: fabrica de ideologias, São Paulo, Atica, 1977, pp. 81-90.
[11] Nelson Warneck Sodré, A ideologia do colonialismo, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1965, pp. 11-16.
[12] Roberto Schwarz, Ao vencendor as batatas, São Paulo, Duas Cidades, 1977, p. 14. Per i motivi che indicherò in seguito, non sono d’accordo con la generalizzazione che Schwarz fa per il XX secolo (cfr. per esempio, Idem, p. 19 e 24) della sua tesi delle “idee fuori posto”.
[13] Idem, p. 14.
[14] Cfr. V. I. Lenin, “Programme agraire de la social-démocratie dans la prémière révolution russe”, in Id., Oeuvres, cit. vol. 13, p. 229 e segg.
[15] Questo concetto “ampliato” della via prussiana appare in Georg Lukács: “Non per nulla Lenin indica questa via [seguita dalla Germania] come un caso tipico di portata internazionale, come una via sfavorevole per il sorgere della moderna società borghese, e che egli chiama la via prussiana. Questa osservazione di Lenin non va limitata alla questione agraria in senso stretto, ma deve essere applicata a tutto lo sviluppo del capitalismo e alla sovrastruttura politica che esso viene ad avere nella moderna società borghese della Germania” (G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. it. E. Arnauld, Torino, Einaudi, 1959, p. 50). In molte delle analisi concrete della società e della cultura della Germania e dell’Ungheria, Lukács ha applicato in modo fecondo il concetto “ampliato” della via prussiana: cfr. per esempio, il suo saggio su Béla Bartók, (“Il mandarino meraviglioso contro l’alienazione”, in Rinascita, n°. 37, 18/9/1970, pp. 18-20), dove egli pone in relazione organicamente i concetti di “via prussiana” e di “intimismo all’ombra del potere”. E’ interessante osservare ancora che il concetto lukàcsiano di “via prussiana” è essenzialmente analogo al concetto gramsciano di “rivoluzione passiva” (o “rivoluzione-restaurazione”, o “rivoluzione dall’alto”), con il quale Gramsci pretende di sintetizzare l’assenza di partecipazione popolare e il tipo di modernizzazione conservatrice che sono stati propri del cammino italiano verso il capitalismo. Non si deve dimenticare che tali concetti sono stati sviluppati da Lukács e da Gramsci nel tentativo di determinare le radici storiche del fascismo, rispettivamente in Germania e in Italia.
[16] O, in altre parole: se si fosse realizzata una soluzione diversa per la nostra secolare questione agraria, una soluzione democratico-rivoluzionaria e non “prussiana”, questa avrebbe aperto lo spazio effettivo per una industrializzazione centrata sul mercato interno popolare; una tale industrializzazione — espandendosi dal basso verso l’alto — potrebbe aver evitato la monopolizzazione precoce e la dipendenza tecnologica dall’estero, che sono alla radice del modello capitalista dipendente-associato che effettivamente ha trionfato.
[17] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, p. 866.
[18] Il vincolo di dipendenza dell’intellettuale brasiliano nei confronti dello Stato è stato ben osservato da Antonio Candido, che arriva perciò a constatare, nella nostra letteratura ottocentesca, “un certo conformismo di forma e di fondo” (Candido, Liteteratura e sociedade, São Paulo, Nacional, 1965, p. 99). In modo ancora più incisivo, Walnice Nogueira Galvão osserva: “Lo Stato (…) si incarica di dispensare l’intellettuale da qualsiasi ruolo nella produzione, sostenendolo per mezzo di impieghi burocratici, donazioni, premi, prebende, ecc. E’ così che l’intellettuale diventa un pezzo dell’apparato dello Stato, con le conseguenze per la sua opera che si possono prevedere. (…) Allora, ciò che si può immaginare è che, con maggiore o minore buona volontà, volontariamente o controvoglia e anche con rarissime onorevoli eccezioni, gli intellettuali brasiliani aderiscono all’ideologia della classe dominante e cercano di non affrontare lo Stato, dal quale dipende direttamente la loro sussistenza” (W. N. Galvão, Saco de gatos, São Paulo, Duas Cidades, 1976, pp. 40-41).
[19] Cfr. C. N. Coutinho, “O significado de Lima Barreto em nossa literatura”, ora in Id., Cultura e sociedade no Brasil. Ensaios sobre idéias e formas, Rio de Janeiro, DP&A, 2000, pp. 99 e segg.
[20] “Comunque, sarebbe prova di schematismo intendere questa tendenza come manifestazione di una chiara adesione immediatamente politico-ideologica al potere stabilito, alle forme più reazionarie di dominazione sociale, sebbene questa adesione accada in alcuni casi. L’intimismo all’ombra del potere' si combina frequentemente con un dichiarato non conformismo, con un malessere soggettivamente sincero davanti alla situazione sociale dominante” (Idem, p. 104).
[21] G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., pp. 5 e 205-206.
[22] Leandro Konder, “A unidade da direita”, in Jornal da Republica, 20/9/1979, São Paulo, p. 4.
[23] Questa tendenza è stata ben analizzata, per il XIX secolo, da Paulo Mercadante, A consciencia conservadora no Brasil, Rio de Janeiro, Saga, 1965.
[24] Entrambe le citazioni sono in Mercadante, op. cit., pp. 62 e 117:
[25] N. W. Sodré, A ideologia do colonialismo, cit., p. 101-161.
[26] L’ISEB [Instituto Superior de Estudos Brasileiros] fu fondato dal governo del presidente Kubitschek [, nel 1955,] come agenzia ideologica dello Stato al fine di sviluppare l’ideologia desenvolvimentista[desenvolvimento significa sviluppo e in Brasile si indica l’ideologia che avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo industriale del paese]. L’ISEB ebbe una forte influenza sugli intellettuali brasiliani, promuovendo ricerche, pubblicazioni, corsi di formazione e attività intellettuali di ogni genere. Naturalmente con l’avvento della dittatura militare nel 1964 fu chiuso e i suoi membri furono perseguitati. [Nota del traduttore].
[27] Cfr. rispettivamente: per i leader della Rivoluzione Praiera, P. Mercadante, A consciencia conservadora, cit., pp. 146-161; per L. Rezende, Antonio Paim, Historia dai ideias filosoficas no Brasil, São Paulo, Grijalbo, 1967, p. 223 e segg.; per l’ISEB, Jacob Gorender, “As correntes sociologicas no Brasil”, inEstudos Sociais, nn°. 3-4, 1958, pp. 335-352; e per lo strutturalismo, Ferreira Gullar, “Vanguardismo e cultura popular no Brasil”, in Temas de Ciencias Humanas, São Paulo, 1979, vol. 5, pp. 80-81.
[28] Cfr. Gramsci, Quaderni, cit., p. 962-963. [29] Idem, pp. 2116-2117. In un senso positivo, Gramsci ha definito il nazional-popolare legandolo esplicitamente allo storicisimo: “’Umanità ‘autentica, fondamentale’, può significare concretamente, nel caso artistico, una cosa sola: ‘storicità’ cioè carattere ‘nazional-popolare’ dello scrittore” (Idem, p. 2247).
[30] Lukács ha visto bene i due momenti del processo: “Il particolare carattere dello sviluppo del popolo tedesco presenta dappertutto, anche in letteratura, i falsi poli: a) di un astratto cosmopolitismo (contrapposto al reale internazionalismo), b) di un provincialismo ristretto che spesso si manifesta come sciovinismo reazionario (contrapposto al reale patriottismo)” (G. Lukács, Realisti tedeschi del XIX secolo, tr. it. F. Codino, Milano Feltrinelli, 1965, p. 19).
[31] Azevedo Amaral, “Realismo politico e democracia”, in Cultura politica, n°. 1, 1943, p. 31.
[32] P. Mercadante, A consciênca conservadora, cit., p. 260.
[33] Non è qui il luogo per esporre le necessarie differenze che la qualificazione di nazional-popolare presenta quando è riferita all’arte o al pensiero sociale. Il nazional-popolare, certamente, si riferisce soltanto all’ideologia, nel senso della concezione del mondo; si lega così alla scienza e all’arte soltanto nella misura in cui queste si legano, in differenti modi, a costellazioni ideologiche.
[34] G. Lukács, Estetica, tr. it. A. Marietti Solmi, Torino, Einaudi, 1970, vol. I, p. 579. Per il necessario pluralismo della sfera estetica, cfr. Idem, pp. 629-654.
[35] Machado de Assis, “Noticia da atual literatura brasileira. Instinto de nacionalidade”, in Id., Obra completa, Rio de Janeiro, Aguilar, 1992, vol. III, pp. 803-804. Cfr. anche le interessanti osservazioni di Astrojildo Pereira su questo testo machadiano, in Machado de Assis, Rio de Janeiro, São José, 1959, pp. 45-85.
[36] Cfr. rispettivamente , Lima Barreto, Feiras e mafuas, São Paulo, Brasiliense, 1961, pp. 202-207; Id.,Impressões de leitura, São Paulo, Brasiliense, 1960, pp. 119-120; e Id., Feiras e mafuas, cit., pp. 68-69, e la lettera a Jaime A. da Camara, del 27/7/1919 (op. cit., in Francisco de Assis Barbosa, A vida de Lima Barreto, Rio de Janeiro, José Olimpio, 1975, pp. 321). La produzione giornalistica di Lima Barreto, riunita in vari volumi delle sue opere complete edite da F. de A. Barbosa (São Paulo, Brasiliense, 1958 e segg.), è un prezioso strumento per analizzare la formazione di una ideologia nazional-popolare in Brasile. Sono pochissimi, finora, gli studi dedicati a questa parte della sua attività culturale; è da risaltare il bel saggio di Astrojildo Pereira, “Posições politicas de Lima Barreto” in Critica impura, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1963, pp. 34-54.
[37] Centros Populares de Cultura, una creazione dell'Une (União Nacional dos Estudantes), all'inizio degli anni 60, con il fine di divulgare quello che allora si chiamava "arte popolare rivoluzionaria". I CPCs promuovevano conferenze, spettacoli, recite teatrali, letture di poemi, ecc. [Nota del traduttore.]
[38] Cfr per la letteratura, Walnice Nogueira Galvão, “Amado: respeitoso, respeitavel”, in Id. Saco de gatos, cit. pp. 13-22; per la musica popolare, Gilberto Vasconcellos, “O sambão-joia”, in Id., Musica popular: de olho na fresta, Rio de Janeiro, Graal, 1977, pp. 75-82.
[39] J. Chasin (O Integralismo de Plinio Salgado, São Paulo, Ciencias Humanas, 1978, p. 628 e segg.) è stato –per quanto ne sappia- il primo a impiegare il concetto di “capitalismo ipertardivo”, indicando con ciò un processo di industrializzazione che avviene quando il capitale monopolista già domina su scala mondiale (ossia nell’epoca dell’imperialismo). Mentre il capitalismo tardivo porta il paese che lo sperimenta a una monopolizzazione precoce, che può trasformarlo in potenza imperialista (Germania, Giappone), il capitalismo molto arretrato lo rende necessariamente dipendente dall’imperialismo.
[40] Promulgato dal governo militare nel dicembre di 1968, come risposta ai movimenti di opposizione provenienti dalla società civile, l'AI-5 (Ato Institucional nº 5) impose ulteriori misure radicali di repressione alle libertà e ai diritti civili e politici, fra i quali la sospensione della libertà di stampa. L'AI-5 fu in vigore fino al 31 dicembre 1978. [Nota del traduttore.].
[41] Sul carattere contraddittorio della creazione nel capitalismo, cfr. il bel saggio di G. Lukács, “Arte livre ou arte dirigida?”, in Id., Marxismo e teoria da literatura, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1968, pp. 225-275.
[42] Centro Brasileiro de Análise e Planejamento, centro di ricerche extra-universitario, creato all'inizio degli anni 70 da professori che erano stati espulsi dell'USP (Università di San Paulo) dopo la promulgazione dell'Atto Instituzionale nº 5. Tra i suoi fondatori erano Fernando Henrique Cardoso (l’attuale presidente del Brasile), Octávio Ianni, José Arthur Giannotti e altri. Conducevano delle ricerche, pubblicavano libri, editavano un’importante rivista, "Estudos CEBRAP". Il Cebrap esiste fino ancora oggi, sebbene non abbia più la chiara dimensione politica che aveva all’inizio. [Nota del traduttore.]
[43] Sulla natura e i limiti di questa “egemonia della sinistra” nella vita culturale brasiliana dell’epoca, cfr. Roberto Schwarz, Cultura e politica, 1964-1969, in Id., O pai de familia e outros estudos, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1978, pp. 61-92.
[44] Il problema della disoccupazione di laureati — con la conseguente formazione di un “esercito culturale di riserva” — è uno dei frutti della disastrosa e demagogica politica universitaria del regime militare. E’ certo che, in parte, lo spettacolare aumento dei posti universitari verificatori dopo il 1964 ha corrisposto alle esigenze dello sviluppo capitalista. Ma uno degli obiettivi della politica di mobilità sociale ascendente, che pretendeva servire all’ampliamento di un’attitudine favorevole al regime tra tali strati. Il collasso di questa politica non si manifesta soltanto nella disoccupazione di laureati (che risulta dalla negazione di quella aspettativa); si rivela anche nel deterioramento radicale delle condizioni dell’insegnamento universitario, che è diventato maggiormente amministrato in istituzioni private, con danno anche della sua funzione della riproduzione del sistema economico vigente.
[45] D’altro lato, finanche gli intellettuali privilegiati che ottengono alti salari tendono a non affrontare più la “cooptazione” come un “favore” dei potenti. E’ certo che possono sorgere in questo caso fenomeni di corruzione intellettuale; ma il fatto che la situazione del salariato porta spontaneamente allo stabilirsi di conflitti di interesse tra gli intellettuali ben remunerati, ma comunque subordinati al capitale) e i padroni. In molti casi, tali conflitti possono assumere la forma di una lotta di questi intellettuali per la loro autonomia in quanto produttori di cultura. Insomma: il concetto di “aristocrazia intellettuale”, applicato senza mediazioni, è tanto problematico quanto quello di “aristocrazia operaia”.
[46] A. Gramsci, Quaderni, cit., p. 2109 e 2192.
[47] Già nel 1957, Palmiro Togliatti si avvaleva di possibilità di questo tipo per difendere la libertà di creazione nei paesi socialisti: “Vi è … un altro motivo che consiglia, in questo campo, di non porre freni alla indagine e creazione artistica, ed è che un determinato indirizzo di ricerca formale, per esempio, anche se per il momento si presenta sterile e negativo, e come tale può e deve essere criticato e denunciato, potrà domani apparire come una tappa che è stato necessario attraversare per giungere a nuove e più profonde forme di espressione e quindi a un progresso di tutta la creazione artistica" (P. Togliatti, Opere celte, Roma, Riuniti, 1977, p. 869).
[48] Questo saggio fu concluso e pubblicato per la prima volta nel 1979. Se mettiamo da parte la repressione aperta e la censura esplicita, tutte le altre tendenze individuate nella sua ultima parte continuano a contrassegnare la vita sociale brasiliana e, in particolare, la sua vita culturale. Alcune di esse addirittura si accentuarono dopo la fine, nel 1985, del regime militare. L'adozione in Brasile di politiche apertamente neoliberiste da parte dei governi civili di Collor de Mello (1990-1992) e di Cardoso (1995-) ha rafforzato la monopolizzazione del capitale e la dipendenza dall'imperialismo, sebbene questa dipendenza riceva adesso il bel nome di "globalizzazione". Questo vale particolarmente nei riguardi dell'industria culturale, che diventa sempre di più monopolistica e snazionalizzata; il fatto nuovo, caso mai, è che adesso la industria culturale non solo coopta intellettuali "tradizionali", ma anche crea i suoi propri intellettuali "organici", certamente più inclini a considerare i beni culturali sempre più come merci. Nei confronti dell'Università, si registra un aumento crescente del settore privato e un chiaro deterioramento del settore pubblico, oggi ampiamente minoritario e praticamente abbandonato dal governo. Ci sono, come sempre, delle resistenze, ma il fatto è che questa relativa egemonia del neoliberismo nel periodo post-dittatoriale non ha permesso che le condizioni aperte dai processi di democratizzazione politica potessero cambiare essenzialmente, tra altre cose, la vita culturale brasiliana. Per ciò, credo che restino ancora attuali anche le proposte di democratizzazione della cultura abbozzate nell'ultima parte del saggio. Altresì, per una visione di questo periodo più recente della storia brasiliana, rimando il lettore al mio saggio La società civile in Gramsci e il Brasile di oggi, in "Critica Marxista", n° 3-4, maggio-agosto 2000, soprattutto p. 73-80.