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CROCE, GENTILE, GRAMSCI SULLA TRADUZIONE - JERVOLINO

Domenico Jervolino
CROCE, GENTILE, GRAMSCI SULLA TRADUZIONE

L’attività del tradurre è tanto antica quanto la storia della civiltà umana nel suo complesso, ma il tema della traduzione solo nella seconda metà del secolo ventesimo è diventato oggetto di una disciplina specifica, secondo alcuni, o meglio di un ampio campo di studi interdisciplinari, dalla linguistica alla semiotica, dalla critica letteraria alla letteratura comparata, alla stessa filosofia in anni più recenti, sino al punto che si è potuto parlare di un tournant philosophique de la traduction da parte di uno dei primi studiosi di traduzione in Francia[1]. Comunque, una volta impostosi a vario titolo il tema della traduzione nella cultura contemporanea, è stato naturale guardarsi indietro e cercare di delineare una storia delle idee sulla traduzione nel passato remoto e prossimo, trovando in questo modo precursori o antenati illustri, anche se spesso il loro contributo si è limitato a frammenti o ad opinioni espresse in margine ad opere dedicate ad altri argomenti, oppure come chiose dei propri lavori di traduzione.

 

Questa storia, che per quel che riguarda la civiltà occidentale, parte almeno dagli antichi Romani, più attenti dei Greci alla necessità e all’importanza del tradurre, giunge fino al primo Novecento, alla vigilia dell’esplosione del tema della traduzione, di cui abbiamo fatto cenno. Esso coinvolge con brevi scritti, ma in modo significativo, i due maggiori filosofi “ufficiali” del periodo, i due dioscuri del neoidealismo italiano, Croce e Gentile, ma in un modo tutto particolare anche quel filosofo di genere molto speciale, che divenne tale operando in un contesto del tutto eccezionale, nell’accademia delle lotte politiche e delle patrie galere, cioè Antonio Gramsci. 1. Croce appartiene a quel ristretto numero di personalità che abbiano detto qualcosa di rilevante sulla traduzione nel periodo che precede gli studi contemporanei, secondo l’autore di uno dei libri più significativi e fortunati sul tema pubblicati nella seconda metà del secolo, George Steiner[2]. Quest’ultimo distingue un primo, lungo periodo che va dagli Antichi fino ai primi dell’Ottocento, caratterizzato da un approccio sostanzialmente empirico al problema della traduzione, da un secondo che va da Schleiermacher fino alla metà del Novecento, dove le considerazioni sulla traduzione sono inserite in un contesto più ampio di idee sul linguaggio e l’interpretazione.

Il tema con cui Croce è entrato con forza nella galleria degli antenati illustri della fase attuale (che costituirebbe per Steiner un terzo periodo) è quello della intraducibilità (che come i lettori dell’opera di Steiner sanno, è addirittura citata in italiano) delle opere d’arte. L’ “intraducibile” è del resto un elemento dialettico che appartiene di diritto al campo della teoria della traduzione. L’intraducibilità di principio delle opere d’arte è una tesi ben nota della Estetica crociana, che sviluppa la concezione dell’arte come intuizione-espressione, attività teoretica peculiare dello spirito distinta da quella logica (e in quanto gradino inferiore della attività conoscitiva, distinta, insieme alla logica, dalla pratica, a sua volta articolata in economica ed etica).

L’intuizione-espressione artistica è irripetibile nella sua creatività ogni volta rinnovata. “Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in un’espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle”[3]. Il fatto estetico, in quanto tale, esaurendosi tutto nell’elaborazione espressiva delle impressioni, non ha nulla a che fare con qualsiasi elemento pratico, sino al punto che diventa qualcosa di inessenziale anche l’esteriorizzazione in un’opera sussistente nel mondo materiale (quadro, statua ecc.) di ciò che è interiormente intuito.
Peraltro, l’espressione non è divisibile in modi o gradi. Tutto il patrimonio tradizionale delle partizioni retoriche viene in questo modo relegato nel campo di ciò che è privo di valore dal punto di vista di un’estetica filosofica. “I singoli fatti espressivi sono altrettanti individui, l’uno non ragguagliabile con l’altro, se non nella comune qualità di espressione. Per adoperare il linguaggio delle scuole, l’espressione è una specie che non può fungere a sua volta da genere. Variano le impressioni ossia i contenuti; ogni contenuto è diverso da ogni altro, perché niente si ripete nella vita; e al variare continuo dei contenuti corrisponde la varietà irriducibile delle forme espressive, sintesi estetiche delle impressioni”[4]. Qui il Croce inserisce come corollario la tesi dell’intraducibilità delle opere d’arte.
Ogni traduzione, infatti, come tentativo di nuova espressione di ciò che già ha trovato la sua singolare espressione nell’originale, o crea una diversa opera d’arte o è espressione deficitaria rispetto all’originale, risultando priva di valore estetico e quindi avendo solo il carattere di un commento, di una parafrasi, di un’approssimazione più o meno riuscita all’originale. La tesi non è nuova, anzi ha precedenti illustri: per restare nell’ambito delle patrie lettere basterebbe ricordare il Dante del Convivio. In effetti, la traduzione del linguaggio poetico incontra limiti e difficoltà che tutti gli studiosi hanno rilevato, fornendo varie risposte (il che non ha impedito che si continuasse a tradurre e che si traducessero anche le opere poetiche). Ma in Croce la tesi dell’impossibilità della traduzione diventa un elemento necessario per la coerenza del sistema. Il fatto empirico dell’attività traduttrice e dell’esistenza di traduzioni conta poco in una filosofia che esclude dalla rilevanza estetica tutto ciò che risulta esteriore rispetto all’intuizione-espressione spirituale.
“Ogni traduzione […] o sminuisce e guasta, ovvero crea una nuova espressione, rimettendo la prima nel crogiuolo e mescolandola con le impressioni personali di colui che si chiama traduttore. Nel primo caso l’espressione resta sempre una, quella dell’originale, essendo l’altra più o meno deficiente, cioè non propriamente espressione: nell’altro saranno sì due, ma di due contenuti diversi. ‘Brutte fedeli o belle infedeli’”.[5]
Il Croce dell’Estetica svolge con rigore la sua tesi, attenuandone solo le conseguenze più radicali, nel momento in cui afferma che, come gli individui possono assomigliarsi tra di loro, pur restando diversi l’uno dall’altro, si può pensare di fondare in tale somiglianza la “possibilità relativa delle traduzioni”. “La traduzione, che si dice buona, è un’approssimazione, che ha valore originario di opera d’arte e può stare da sé”. [6]

Questo impianto, che si focalizza evidentemente sulla necessità di sottolineare il carattere unico e singolare di ogni autentico fatto espressivo, viene ribadito dal Croce anche a distanza di anni. In un altro testo crociano importante, nel volume La Poesia del 1936, il mantenimento della tesi dell’Estetica si accompagna con la disponibilità a concedere, senza riserve, la traducibilità dal punto di vista teoretico: “Non v’ha dubbio che la sfera in cui ha luogo il tradurre sia quella dell’espressione prosastica, che si adempie per simboli e segni. Questi segni sono permutabili, secondo che torna comodo; e non solo quelli della matematica, della fisica e delle altre scienze, ma anche quelli della filosofia e della storia”.[7] Del tradurre qui viene data una definizione limpidamente legata a “l’equivalenza dei segni per la reciproca comprensione e intelligenza”, soltanto questo “stabilire l’equivalenza dei segni” è veramente tradurre.
Solo la prosa, allora, si può tradurre, intendendo per prosa rigorosamente ciò che è privo di qualsiasi pretesa a un valore estetico, “la prosa che sia meramente prosa”[8], la prosa nella sua “prosasticità”, che può ben avere invece uno scopo filosofico o scientifico o storico o morale, laddove possono essere stabilite delle equivalenze di senso fra espressioni diverse considerate nel loro contenuto conoscitivo. E questo è possibile non solo fra lingue diverse, ma anche nel nostro rapportarci a forme antiche della nostra stessa lingua, che richiedono – per essere comprese – una sorta di traduzione.
Intraducibilità della poesia, dunque, ma necessità della traduzione nel campo della filosofia, della scienza, della tecnica e di tutto ciò che si esprime in prosa. Necessità della traduzione, ancora, per ragioni pedagogiche, nella pratica degli studia humanitatis, allorché, non essendosi potuto o non avendo voluto apprendere la lingua originale in cui è scritto questo o quel testo poetico, diventa necessario ricorrere ad alcunché che funzioni come un’approssimazione alla vera poesia. In qualche caso queste approssimazioni acquistano vita e rilievo proprio, e diventano a loro volta opere d’arte: sono appunto quelle “belle infedeli” che sono nuove opere d’arte.

L’individualità irripetibile dell’espressione fa sì che Croce consideri come altra cosa dal “poetico” autentico che risuona nell’anima la declamazione dei versi di una poesia, oppure l’interpretazione teatrale di un dramma: in questi casi, si dà luogo magari, quando il risultato è esteticamente rilevante, ad una diversa opera d’arte, di cui sono soggetti gli attori ma non l’autore rappresentato o interpretato. La radicalità del filosofo non teme il paradosso, se si considera che la parola della poesia epica o di quella tragica era per sua natura destinata alla proclamazione. Ma quest’osservazione introdurrebbe la tematica dei generi letterari e quindi dei modi diversi dell’espressione, già condannati e ricondotti al dominio dell’esteriorità. Del resto, come sappiamo, per Croce ciò che veramente conta è la pura parola interiore: anche nelle arti visive, la realizzazione esterna dell’opera in un supporto materiale è inessenziale. Se si vede bene, in questo modo il linguaggio viene fatto vivere nel silenzio: riduzione suggestiva se si trattasse del silenzio da cui ogni parola si distacca. Qui pare, invece, un silenzio che è la pura proiezione della pratica della lettura silenziosa dei dotti, pratica che s’impone nella nostra civiltà letteraria solo a un certo punto (ricordiamo la notazione di Agostino nelle Confessioni a proposito del leggere silenzioso di Ambrogio[9]) e che invece assume un valore normativo assoluto nell’idealismo crociano. Non meno istruttiva è un’altra osservazione del Croce, che commenta l’affermazione (che come vedremo è del Gentile del 1920, non esplicitamente menzionato) secondo la quale “noi non leggiamo mai una poesia senza tradurla nel nostro linguaggio, né intendiamo o parliamo una lingua straniera senza, nell’atto stesso, tradurla nella nostra”. “Qui, osserva l’autore, lo stesso appello al fatto attesta il contrario”[10]. E questo accade perché il leggere o il parlare veramente una lingua straniera comporta il rivivere quei suoni e nei suoni le immagini e i concetti. Tradurre significherà invece sempre introdurre altri suoni, altre immagini, altre espressioni, insomma creare un altro linguaggio. Tradurre da un linguaggio ad un altro è detto per metafora. Tradurre significa, in effetti, includere un pensiero altrui nel nostro pensiero. Grazie al tradurre, così inteso, noi possiamo pensare quello stesso concetto che è stato pensato da Platone e da Aristotele: allora, presente e passato si identificano come “momenti eterni della storia del pensiero”[11].

Due tesi, dunque, caratterizzano la posizione crociana: la prima è quella dell’intraducibilità della poesia, la seconda (meno nota, ma quasi speculare alla prima) quella della traducibilità perfetta del pensiero.

Due tesi che, lo diciamo francamente, ci paiono entrambe inaccettabili: il tradurre, che comporta il riconoscimento dell’alterità e la sua accoglienza da parte della finitudine di un’altra esistenza, è negato a livello dell’intuizione-espressione in nome dell’alterità irriducibile di ogni individualità ed è negato a livello del pensiero in quanto riassorbito nell’unità dello spirito che identifica nell’eternità dell’universale ogni particolarità. In un modo che può anche essere suggestivo, la duplice negazione rende impossibile un tradurre che sia tale nel regime della contingenza esistenziale. E’ il fantasma dell’identità perfetta che compare due volte e schiaccia coi suoi paradossi l’imperfezione costitutiva del tradurre, la sola che sia veramente accessibile agli umani.


2. La distinzione fra poesia e prosa, fra arte e filosofia che finiva per permettere una sorta di coesistenza pacifica nel sistema crociano dei distinti fra impossibilità e possibilità della traduzione, non poteva non essere messa in discussione dal Gentile. Quest’ultimo dedica al problema della traduzione un articolo del 1920, Il torto e il diritto delle traduzioni, pubblicato sul primo numero della nuova “Rivista di cultura”, e quindi successivo di quasi vent’anni all’Estetica ma precedente il volume crociano del 1936. Sennonché l’impianto complessivo dei due sistemi era ormai consolidato e i punti di convergenza e di divergenza col Croce sono limpidamente espressi.
Gentile parte da una radicalizzazione della posizione crociana dell’Estetica: è impossibile tradurre non solo le opere d’arte, ma anche le opere di scienza o di filosofia, perché non c’è pensiero senza linguaggio, “non c’è pensiero che sia pensiero, senz’essere la poesia del pensatore”[12]. E poco dopo troviamo un’affermazione che ritroveremo nella letteratura fenomenologica: il linguaggio non è rivestimento esteriore, “non veste, ma corpo del pensiero”[13]: questo viene detto a proposito della terminologia filosofica, ma ha nel contesto anche un valore generale. Infatti, citando Humboldt, la lingua non è ergon ma enérgheia, Gentile sottolinea che la lingua, in quanto nella sua concretezza è il parlare, non è fatto (oggetto della conoscenza del grammatico e del glottologo), ma è atto, come qualsiasi forma di vita dello spirito. Intesa la lingua in questo modo, essa è una sola, sicché si può arrivare a due conclusioni opposte che sono come le facce di una medaglia: noi non traduciamo mai, perché l’unica lingua è quella vivente; noi traduciamo sempre, perché “la lingua vera, sonante nell’animo umano, non è mai la stessa, né anche in due istanti consecutivi; ed esiste a condizione di trasformarsi, continuamente inquieta, viva”[14].

A questo punto il Gentile si lancia in una vera e propria apoteosi del tradurre, con accenti che potrebbero piacere allo Steiner (che in effetti ne cita qualche rigo): “Tradurre, in verità, è la condizione d’ogni pensare e d’ogni apprendere; e non si traduce soltanto, come si dice empiricamente parlando e presupponendo così lingue diverse, da una lingua straniera nella nostra, ma si traduce altresì dalla nostra, sempre: e non soltanto dalla nostra dei secoli remoti e degli scrittori di cui siamo lettori, ma anche dalla nostra più recente […]. Ma che cos’è il tradurre, non in astratto ma in concreto, quando c’è chi traduce e quando si bada a quel che egli fa, se non un’interpretazione, in cui da una lingua si passa ad un’altra perché sono entrambe note al traduttore, e cioè il traduttore le ha messe entrambe in rapporto nel suo spirito, e può passare dall’una all’altra, come da una parte all’altra della stessa lingua: di quell’unica lingua, che per lui veramente ci sia: la quale non è né l’una né l’altra, ma l’insieme delle due nella loro relazione od unità? Chi traduce comincia a pensare in un modo, al quale non si arresta; ma lo trasforma, continuando a svolgere, a chiarificare, a rendere sempre più intimo e soggettivo quello che ha cominciato a pensare: e in questo passaggio da un momento all’altro del proprio pensiero, nella sua unica lingua, ha luogo quello che, empiricamente considerando, si dice tradurre, come un passare da una lingua ad un’altra. E non avviene forse il medesimo quando noi leggiamo ciò che è scritto nella nostra stessa lingua, da altri o da noi medesimi?”[15]. La possibilità, anzi la necessità del tradurre (senza distinzione di poesia e di prosa, di arte e di filosofia) viene così fondata. Anzi, come dice il Gentile, il “diritto” del traduttore, il cui torto nasce invece dal pregiudizio di considerare l’opera dello spirito come una cosa, un fatto. Noi leggiamo Dante e Goethe, e li facciamo rivivere in noi, non il Dante morto nel 1321, ma il Dante che vive in noi, così come il Goethe da noi letto, in tedesco, è il “nostro Goethe”. L’articolo del 1920 viene ripreso dal Gentile nella Filosofia dell’arte, la cui prima edizione risale al 1931, e ne viene riproposta la conclusione: “Anche un lettore italiano, dunque, deve tradurre nella sua propria lingua (e nella sua lingua d’oggi!) il poema scritto in italiano, ma da un altro e sei secoli fa. Che più? Ognuno di noi ha bisogno di tradurre a se stesso quello che scrisse ieri”[16]. Questa volta è esplicita la polemica con Benedetto Croce, che viene accusato di non essersi liberato dall’ “incubo di una realtà estetica estrasoggettiva, chiusa e sigillata nel passato”[17].

Come si vede, in entrambi i filosofi la soluzione all’aporia del tradurre ripropone l’ispirazione di fondo del sistema filosofico: da una parte la filosofia dei distinti, dall’altra l’unità dell’atto spirituale. Questo conferma la rilevanza teoretica della questione, apparentemente marginale, della traduzione.
Per quel che concerne, in particolare, la soluzione gentiliana, si può dire che essa, nel tentativo di dare un fondamento all’umana attività del tradurre, finisca per dissolvere, più che risolvere il problema: ciò che si perde è proprio quella diversità delle lingue su cui Humboldt meditava, nel fluire eracliteo dell’unica vita spirituale. E così si neutralizza anche l’acquisizione implicita nella nozione del linguaggio come corpo del pensiero. La vita che viene evocata è una vita più che umana (la vita concreta, non fatta solo di vivacità inestinguibile e multiforme, conosce anche la passività, la pesantezza, l’opacità, la ripetizione), che alla fine rischia di diventare evanescente, se non addirittura disumana. Eppure, anche se ravvolto nell’involucro speculativo dell’idealismo attuale, qualcosa di effettivo viene colto.
Ancora una volta, nei confronti delle scoperte così come delle aporie e dei disorientamenti del pensiero idealistico, occorrerà un rovesciamento che riporti nella concretezza della condizione umana il movimento della dialettica.

3. Sarà appunto nel pensiero di Antonio Gramsci che cercheremo questo rovesciamento. Anche nel caso di Gramsci solo di recente l’attenzione degli studiosi ha messo a fuoco il tema della traduzione[18], che ora ci appare come uno dei motivi più originali della sua meditazione e una delle ragioni di una sua nuova attualità, al di là degli stereotipi che hanno a lungo offuscato la sua figura di pensatore, ben più ricca dell’icona pur veneranda che una certa tradizione ci ha trasmesso.
Formato agli studi linguistici alla scuola del Bartoli, che sperava per il suo allievo un brillante destino di studioso di quella scienza nuova che era, agli inizi del secolo, la linguistica, Gramsci è lettore attento e critico perspicace, ancorché irregolare per la sua collocazione anomala – o dovremmo dire, per la sua mancanza di collocazione nel mondo intellettuale, della cultura varia e inquieta del suo tempo, e in particolare della grande filosofia italiana del primo Novecento. Antonio Gramsci elabora nella sua opera, per forza di cose, frammentaria e incompiuta, una originale ripresa del marxismo, liberato dai dogmatismi naturalistici ed economicistici e ricollocato nella grande corrente della vita storica e della lotta per un problematico, difficilissimo, eppur irrinunciabile processo di liberazione dell’umano.
La denominazione di “filosofia della prassi” in questo quadro non assume il senso di una semplice formulazione verbale suggerita dalla prudenza del prigioniero, ma ha, come ormai si dovrebbe considerare acquisito, dopo puntuali indagini filologicamente documentate, un suo peculiare significato teorico. La prassi è la verità di Marx e del marxismo. Il pensiero di Marx è filosofia, anche se rompe radicalmente con la filosofia del passato, e non mera metodologia; in questo Gentile aveva avuto ragione rispetto a Croce. Non dimentichiamo che se c’è un debito di Gramsci nei confronti della filosofia neoidealistica, quest’ultima, a sua volta, negli esordi giovanili di entrambi i suoi maggiori esponenti, si era misurata con Marx e aveva contratto un debito teoretico col suo pensiero. Ora c’è un legame strettissimo fra prassi e traduzione, così come l’intende Gramsci. Egli in effetti sembra trascurare la questione crociana della traduzione dell’opera d’arte, e anche quella della traduzione interlinguistica (per usare la terminologia di Jakobson), anche se non dobbiamo dimenticare che alcuni dei Quaderni sono occupati da esercizi di traduzione.
Ma in effetti Gramsci affronta il problema a un livello diverso, quello della “traducibilità” dei linguaggi, non tanto delle lingue storicamente definite, ma di quegli insiemi linguistico-culturali che sono propri a una disciplina, a una visione del mondo, a un universo conoscitivo particolare: in questo modo egli riprende il problema che nella tradizione marxista corrisponde alle cosiddette “sovrastrutture”, un tema che del resto era stato centrale nel marxismo italiano e nell’impatto che aveva avuto colla nuova generazione di intellettuali borghesi alla fine dell’Ottocento. Gramsci si colloca non dal lato dell’impossibilità di tradurre (la poesia) ma da quello del “noi traduciamo sempre, quando parliamo, quando pensiamo” (da quel tradurre che Croce riserva alla filosofia e che Gentile estende all’intera vita spirituale). Solo che la chiave di questo tradurre-interpretare universale non è, non può più essere per Gramsci una filosofia dello spirito o dell’atto col quale lo spirito perennemente si crea, ma la nuova filosofia della prassi. E’ la prassi storica e sociale che contiene il segreto di tutte le produzioni culturali ed è la filosofia marxiana della prassi che ne sa leggere la verità storica.
In questo modo, Gramsci va oltre Croce e Gentile e si avvicina a quella riscoperta novecentesca dell’ermeneutica che si realizzava negli anni Venti nell’ambito delle filosofie dell’esistenza e che anche il marxismo rivoluzionario russo avrebbe potuto fare suo se, invece di chiudersi in una dogmatica naturalistica e positivisteggiante, fosse stato attento alle avanguardie culturali che nella stessa Russia si erano schierate con la Rivoluzione e che invece da questa furono respinte, guardate con diffidenza e poi addirittura perseguitate fino all’eliminazione fisica durante il periodo staliniano.
Penso per esempio, nel campo della filosofia, alla promettente scuola fenomenologica di Mosca, attorno al giovane professore Gustav Špet, che aveva fra i suoi discepoli giovani come Roman Jakobson e Boris Pasternak[19]. Penso all’esperienza delle avanguardie letterarie e artistiche di quegli anni.
Di tutto ciò poco o nulla poteva sapere il Gramsci detenuto nelle carceri fasciste: è perciò straordinario che egli sia giunto, per vie sue originali, a una sorta di scoperta personale dell’ermeneutica, attraverso un rovesciamento della nuova filosofia idealistica italiana.
Gramsci ha, invece, una conoscenza di prima mano degli studi contemporanei sul linguaggio, che risale agli anni universitari: siamo alla vigilia della svolta linguistica nella filosofia del Novecento, che si compiva negli anni della detenzione e continuerà per gran parte del secolo. I cenni su questo tema che troviamo nell’opera gramsciana, su Bréal, su Vailati, su Russell, su Peano (quest’ultimo docente a Torino durante gli anni di studio del giovane sardo) hanno la freschezza e il fascino di una fase aurorale, in cui per così dire i giochi non sono ancora fatti.
Il linguaggio è inteso in un senso molto ampio che diviene fondante per la concezione della storia: “Pare si possa dire che ‘linguaggio’ è essenzialmente un nome collettivo, che non presuppone una cosa unica né nel tempo né nello spazio. Linguaggio significa anche cultura e filosofia […]: al limite si può dire che ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di pensare e di sentire”[20].
Traducibilità dei linguaggi significa, allora, capacità di stabilire una rete di connessioni e di rapporti di comprensione fra culture diverse, saper o non saper tradurre diventa decisivo per il nuovo tipo di intellettuale che Gramsci auspica. Pertanto non stupisce che egli tenda a concludere con l’affermazione, sia pure mitigata da un “pare”, di un primato o di un compito peculiare della filosofia della prassi rispetto alla traducibilità dei linguaggi: “E’ da risolvere il problema: se la traducibilità dei vari linguaggi filosofici e scientifici sia un elemento ‘critico’ proprio di ogni concezione del mondo o solamente proprio della filosofia della prassi (in modo organico) e solo parzialmente appropriabile da altre filosofie. […] Pare si possa dire appunto che solo nella filosofia della prassi la ‘traduzione’ è organica e profonda, mentre da altri punti di vista spesso è un semplice gioco di ‘schematismi’ generici”[21]. Comunque questa funzione di “traduttore” universale assegnata alla filosofia della prassi è per Gramsci storicamente determinata. La filosofia della prassi è essa stessa storica, quindi destinata al superamento, mentre alcuni aspetti delle filosofie idealistiche oggi criticate, per sua esplicita affermazione, potrebbero rivelarsi in futuro validi in una società diversa da quella attuale. In ogni caso, non possiamo dimenticare il carattere precario e provvisorio della ricerca gramsciana, proprio per le condizioni precarie e penose nella quali essa dovette svolgersi. Di essa riteniamo innanzitutto l’idea feconda di una traducibilità da perseguire nel contesto accidentato e difficile di una prassi impegnata, senza certezze di successo, nella costruzione di una comunità inter-umana, degna di tale nome. Quest’idea, dialetticamente connessa all’eredità dell’idealismo, nelle sue varie forme, ma tale da dover essa stessa essere continuamente tradotta e ri-tradotta a misura della finitudine dell’esistere, resta ancora per noi un oggetto teorico degno di essere pensato e un compito etico-pratico per il mondo “grande e terribile” nel quale ci è dato di vivere e operare.


[1] Cfr. J.-R. Ladmiral, Traduire. Théorèmes pour la traduction, Gallimard, Paris 19942, p. XIII.
[2] Cfr. G. Steiner, Dopo Babele, tr. it. di R. Bianchi e C. Béguin, Garzanti, Milano 19942, p. 288.
[3] B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1990, p. 12.
[4] Ibid., p. 86.
[5] Estetica, p. 87.
[6] Ibid., p. 94. Più avanti, nella stessa Estetica, nel capitolo sul “bello fisico” di natura e di arte, ricorre il verbo “tradurre” in un senso che vale la pena di notare: “Il processo completo della produzione estetica può essere simboleggiato in quattro stadi, che sono: a, impressioni; b, espressione o sintesi spirituale estetica; c, accompagnamento edonistico o piacere del bello (piacere estetico); d, traduzione del fatto estetico in fenomeni fisici (suoni, toni, movimenti, combinazioni di linee e di colori, ecc.). Ognun vede che il punto essenziale, il solo che sia propriamente estetico e davvero reale, è quel b, che manca alla mera manifestazione o costruzione naturalistica, detta anch’essa, per metafora, espressione” (p. 121).
[7] La Poesia, Laterza, Bari 19535, p. 103.
[8] Ibid., p. 104.
[9] Cfr. Conf. VI, 3.
[10] Ibid., p. 105.
[11] Ibid., p. 106.
[12] Rist. in G. Gentile, Frammenti di estetica e di letteratura, Carabba, Lanciano s.d., ma l’Avvertenza reca la data 20 novembre 1920, vedi p. 369.
[13] Ibid., p. 370.
[14] Ibid., p. 373.
[15] Ibid., pp. 373-374. Per la citazione di Gentile da parte di Steiner, vedi G. Steiner, op. cit., p. 304. [16] G. Gentile, La filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 1975, p. 241.
[17] Ibid., p. 241, nota.
[18] Ricordo a questo proposito i contributi di André Tosel, del quale si veda in particolare Marx en italiques. Aux sources de la philosophie italienne contemporaine, Trans Europe Repress, Mauvezin 1991. Più recentemente si veda di Giorgio Baratta, Le rose e i quaderni, Gamberetti, Roma 2000 e di Fabio Frosini, Gramsci e la filosofia, Carocci, Roma 2003, pp. 98-102. Su Gramsci e la filosofia del linguaggio non può essere dimenticato lo studio di Franco Lo Piparo, Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Pref. di Tullio De Mauro, Laterza, Bari 1979.
[19] Su questo punto rinvio al mio articolo Phénoménologie herméneutique et marxisme critique, “Actuel Marx”, n. 25, 1999, pp. 57-67. [20] Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, 4 voll., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1330.
[21] Ibid., p. 1468.