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IL LETTORE IN CATENE. LA CRITICA LETTERARIA NEI "QUADERNI" - MENETTI

A cura di Andrea Menetti, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni (Carocci, Roma 2004, pp.143, € 11,90)

Il lettore in catene. Gramsci critico letterario?

Di Alessandro Errico

C’era bisogno di una nuova, sia pur breve selezione dei Quaderni del carcere? L’esigenza di arrivare ad un pubblico ampio è da tempo il leit motiv che guida queste operazioni e dunque, partendo da questa impellente necessità, per molto tempo si è dato credito «ai temi più dei tempi», anche da quando con l’edizione critica si era giunti – illusoriamente – ad una consapevolezza di inscindibilità di un pensiero quanto mai “coerente” nelle sua apparente eterogeneità. E sia, versus «la superstizione della

cronologia», via con lo sforzo per «rendere accessibile» la composita ricchezza del pensiero di Antonio Gramsci al grande pubblico, anche al prezzo di ridurne la portata potenziale. È uscito recentemente da Carocci un libretto dal titolo Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni a cura di Andrea Menetti (Roma, Carocci editore, 2004, pp.143, euro 11,90) che si inserisce a pieno diritto in questa tradizione editoriale.
Il libro è aperto da una lunga introduzione dello stesso Menetti (La critica letteraria di Antonio Gramsci come «situazione spirituale del tempo») che, senza nulla togliere al Gramsci compresso, appare la parte più interessante del libro, tant’è che ne prende – come usa oggi – un buon terzo. I restanti due terzi sono occupati dalla selezione «dai Quaderni del carcere» che risulta a sua volta divisa in tre sezioni dedicate a Giornalismo, Letteratura popolare e, come era prevedibile dal sottotitolo, Critica letteraria. La selezione però esclude pregiudizialmente «temi noti e dibattuti, da Dante a Manzoni» per dare spazio al Gramsci “sociologo” «di gusto e raffinato» (Nota al lettore, p. 7).
La figura del pensatore sardo è dunque tagliata in modo netto, anche se si constata «la difficoltà di separarne i confini» (pag. 10), difficoltà che viene superata con l’intenzione programmatica di seguire «con una certa libertà di direzione, sentieri che rimangono aperti e percorribili»: nello specifico, «l’intonazione che sottende questa scelta orientata di brani è di tracciare un sentiero del lettore» che presume inevitabilmente «strappi e scelte difficili» (p. 56). Al di là del metodo comunque, a pagina 17 si incontra un concetto radicalmente gramsciano che con fatica si riesce ad allineare al resto del discorso: «solo annullando i confini tra i saperi – divulgativo e specialistico – è possibile sperare in una crescita morale e intellettuale». Menetti rappresenta qui la più semplice e insieme complessa sfida che Gramsci lascia al critico delle idee: «scoprire il punto in cui il lettore diventa disponibile» e si prepara a «disporsi all'urto delle cose» (p. 20). La società di massa che bussa alla porta del lettore, l’industria culturale (definita a pag. 40 un po’ eufemisticamente, sulla scia di Tocqueville, «democrazia della cultura»: e l’eufemismo sembra la figura più ricorrente di questo saggio-introduzione) che lo uniforma ad una «moltitudine in attesa» (p. 42) prima invisibile e inafferrabile ora «nell’età della tecnica» invadente ed invasiva.
Il lettore è dunque in balia della modernità e Gramsci «appartiene fuor d’ogni dubbio a quella rara specie di pensatori in grado di convocare, nelle proprie pagine, la situazione spirituale del tempo» (p. 37) e di indagare questa modernità sul sottile filo della «riflessione ontologica» (pp. 44 e 52) intesa come filosofia dell’esistente. Il quadro che sembra delinearsi è quello in fondo di un sociologo della letteratura (e/o della cultura) ante litteram, un sociologo tutto preso dalla «superficie» nella speranza di cavarne fuori «un accesso immediato al contenuto dell’esistente» (p. 53). La necessità di annullare i confini tra i saperi può al dunque essere messa da parte per sondare lo specifico gramsciano sulla “superficie”: letteratura popolare, romanzi d’avventura e polizieschi, giornalismo di massa, “critica letteraria” sfrondata dall’ “analisi letteraria”, dunque fuori i “giudizi” e gli approfondimenti su Dante o Manzoni, ad esempio dove i passi sul Manzoni avrebbero certamente potuto illuminare la parte del saggio dedicata al rapporto “intellettuali”/“umili” senza ricorrere a citazioni di altri pensatori.
In effetti su questo punto occorre spendere alcune parole: Menetti mette in opera un dialogo ideale tra Gramsci e altre «differenti divise concettuali» (p. 56) con il nobile scopo di assimilare il pensatore comunista ad una tradizione di pensiero di più ampio respiro. Sfilano per l’occasione citazioni eterogenee da Chamfort, Valery, Borges, Serra, Benjamin, Broch, Kracauer, Simmel, Sternberger, Romain Rolland, Cioran, Thibaudet, Barthes, Raimondi, Gadda, Musil, Weber, Kierkegaard, Nietzsche, d'Annunzio, Cristina Campo, Anatole France, Sainte-Beuve, Eugene Bracht, Ricoeur, Debenedetti, Jauss, Calvino, Gracq, Taine, Bourget, Walzer, Morin, Tocqueville, Prezzolini, Ortega Y Gasset, Lippmann, Jaspers, Fumaroli, Foucault, Gutzkow, Moufflet, Praz, Caillois, Bachtin, Orwell, Girard, Lanson ecc. (si perdoni il freddo elenco stilato tutto per l’occhio…) e ne esce fuori un discorso “citeriore” dove a volte sembra si proceda nonostante Gramsci: «pur rimanendo, di necessità, entro la maschera che orna l'immagine di Gramsci...» (p. 52) dove quel “di necessità” spinge a chiedersi ancora una volta il perché di una antologia di/su Gramsci stesso (non si poteva pubblicare “solo” un saggio?).
Il rapporto tra introduzione e selezione risulta quindi piuttosto forzato, soprattutto tenendo conto delle numerose remore che contrappuntano nell’introduzione gli sviluppi del pensiero gramsciano. Nel rapporto appena accennato, ma senz’altro gravido di spunti (“di necessità” non trattati diffusamente), Gramsci-Serra, ad esempio, la situazione spirituale del tempo interessa entrambi con la stessa intensità ma non allo stesso modo: «[a differenza di Gramsci] Serra [è] libero da vincoli di ordine sociologico e da una certa abitudine ad affrontare le questioni della vita [...] Gramsci invece opera all'interno di una rete di relazioni e riferimenti culturali che [...] mantiene maglie strettissime e una circolarità piena» (p. 29). In effetti la rete di relazioni nella quale opera Gramsci è un partito politico che lui stesso ha contribuito a fondare e i riferimenti culturali ai quali egli si rifà sono rintracciabili in quella filosofia della praxis che evidentemente rappresenta un imbarazzante ostacolo sulla via dell’Assoluto: «...ma i dubbi che muovono l'antropologia di Serra…, in Gramsci paiono risvolti meno avvertiti, come se al suo lettore immaginario fosse destinata altra sorte, più vicina alle certezze e ai dati di fatto» (p. 28). Ancora la rimozione della radice politica delle note gramsciane con una attenuazione piuttosto sarcastica: i lettori di Serra e Calvino non troveranno certezze ma solo un muro di dubbi; il lettore di Gramsci troverà, si potrebbe dire sviluppando il ragionamento di Menetti con una prolessi, il muro di Berlino.
Poco oltre si legge che «Gramsci procede lungo questo insidioso crinale, talvolta perdendo l'equilibrio. Lo testimonia una lettera a Tatiana... le parole, amare, quasi una intima confessione svelata a se stesso... accennano a una esigenza "psicologica" che impedisce il pensare "disinteressatamente" senza obiettivi che possano tradursi in immediate attività "pratiche"» (p. 34). Qui le virgolette sono importanti perchè le parole pesano e non solo, secondo me, perchè sono stralci di citazioni della lettera a Tatiana. “Disinteressatamente”, “psicologica”, “pratiche”: si giunge imprevedibilmente a far “confessare” una colpa che, magari questo può stupire, per Gramsci era piuttosto una virtù strettamente connessa alla necessità, riconosciuta anche da Menetti, di non cadere «nel tranello della letteratura che tende a farsi meditazione» (p. 10). Per questa ragione i suoi «scopi pratici lo allontanano dalla letteratura come spazio aperto e capacità, per un ideale, di comprendere il suo opposto» (p. 35), non perché l’ideologia gli ha dato alla testa ma piuttosto per l’esatto contrario. Gramsci non può separare “letteratura” (come spazio aperto) da “politica” (gli scopi “pratici” che evidentemente appaiono uno spazio chiuso) perché questo significa precisamente «non separazione dei saperi» come presupposto «per sperare in una crescita morale e intellettuale» (p. 17).
«L'operazione critica di Gramsci partecipa di una rivoluzione inconsapevole che nasce come intelligenza critica per poi morire tra le sabbie mobili della ideologia politica. E si trova in questo spazio ridotto – tra l'idea e la sua sistemazione – tutta l'essenza del Gramsci pensatore, in grado di procedere lungo un sentiero le cui diramazioni politiche – per una volta almeno – possiamo non percorrere» (p. 37). Entrati nel bosco (e usciti allo scoperto) si scopre che il «sentiero» del lettore che all'inizio si voleva percorrere è lastricato di ostacoli e che, ma guarda un po', Antonio Gramsci partecipa di una (pascoliano-debenedettiana) rivoluzione critica inconsapevole, ma non è un critico letterario tout court. Tornare indietro non se ne parla: tanto vale pubblicare una lunga introduzione e fare una selezione drastica dei Quaderni tripartita in Giornalismo/Letteratura popolare/Critica letteraria, dove l'ultima sezione, elevata anche a sottotitolo del libro, presenta appena due note.
Un libro dunque che conferma quante difficoltà ci siano ancora ad avvicinarsi ad un pensatore così “straordinario” (nel senso etimologico) come Gramsci al di là delle facili dichiarazioni di metodo e questo perché, come già intuivamo, «tra l'idea e la sua sistemazione» ci passa il mare.