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IL DRAMMA TEATRALE "L'UOMO DI TURI" DI PIERO ZUCARO

L'uomo di Turi, dramma di Piero Zucaro

Recensione al dramma teatrale "L’uomo di Turi" di Piero Zucaro

Di Sandra Dugo

«A chi ci tiene chiusi, qui in cattività, diciamo: sani siamo! Vogliam la libertà!». Ascoltare la forza dirompente di queste parole, espressione dell’energia della vita contro la morte, della libertà contro la reclusione, delle persone vive contro i fantasmi della repressione. Si tratta delle parole pronunciate dal coro nel terzo atto della Opera del Dissenso di Unico… e basta, estratto dal dramma teatrale di Piero Zucaro L’Uomo di Turi.
Leggendo il testo teatrale, sin dal Prologo sembra di assistere a un valzer tragicomico che diventa una tarantella ironica ed esorcizzatrice nelle pagine successive. Mi sembra significativo pensare a una catarsi finale, vissuta in funzione di una purificazione dal male, dal dolore e dalla sofferenza di un destino spietato che ha travolto

«l’uomo di Turi». Già nel Prologo assistiamo a uno scambio di battute che prelude a un allegra e ironica ballata che precede l’approssimarsi della morte. Il “Professore Antonio Gramsci” viene improvvisamente resuscitato insieme al suo contrario, incarnato dal personaggio dell’“l’Unico e… basta”. Viene coinvolto in prima persona nella storia della sua esperienza carceraria in parte reinventata, secondo le regole di una rappresentazione teatrale. Quindi è ipotizzabile che sia essenziale per Gramsci vivere in una cella di detenzione, lontano dalla vita esterna, portando con sé tracce di vita che rappresentano i legami vitali con i propri cari: il violino di Giulia Schucht, la gabbietta per uccellini apertissima a chissà quali sorprese provenienti dal mondo esterno, e un retino acchiappa-farfalle. Inoltre sono presenti anche il noto “Meccano”, per citare solo alcuni fra gli oggetti, menzionati dallo stesso Gramsci nelle Lettere, che rappresentano le sue suggestioni e le sue impressioni, ma che evidenziano soprattutto i legami di vita vissuti e ancora da vivere e rivivere, quasi a voler ricordare un “für ewig” dell’eternità, di un’esistenza che non vuole spegnersi mai.
Tuttavia è bene precisare che resuscitare Gramsci e il suo contrario non è impresa da poco, e credo non sia azzardato sostenere che Piero Zucaro entra nel proprio personaggio di narratore onnipresente, per osservare lo scorrere delle battute, la scena della scherma dei coltelli, e quanto possa far vivere ai lettori-spettatori una tragedia ante litteram, condita da pungenti affermazioni. L’obiettivo finale è suscitare in noi il giusto sdegno, e anche l’adeguata commozione, tuttavia non eccessiva, ma solo quanto basta per aderire alla finzione teatrale, cioè provare un qualche sentimento che giunga in noi mentre stiamo assistendo alla rappresentazione scenica del dramma. L’espressione dell’animo è utilizzata come arte umoristica?
Di sicuro “L’Unico e basta” intraprende un coraggioso e temerario colloquio con “l’Onorevole, il Professore Antonio Gramsci”, rappresentando però teatralmente il monologo interiore di Gramsci con l’altro sé, nello scrivere di sé che potremmo definire ironico. In realtà l’autore trasferisce il mondo interiore gramsciano nell’intimo dei personaggi, ricorrendo al materiale linguistico dialettale e nel caso dell’“Unico” anche al rovesciamento della personalità di Gramsci, per ritrarne il carattere opposto, in realtà inesistente: l’anarchico. Creare la diatriba del personaggio Gramsci con sé stesso significa rappresentare l’irrappresentabile, cioè l’impossibile, idea che appartiene a questa invenzione teatrale.
Arriva presto l’abbraccio partenopeo della “Napoli Buona”, che molti napoletani fuori sede amano distinguere (udite, udite) dalla “Napoli cattiva”. Questo abbraccio affettuoso si manifesta attraverso un linguaggio semplice e familiare e soprattutto polimorfico, il personaggio dell’anarchico ascolta il Professore e risponde spesso alle sue frasi tristi con battute, intrise di saggezza popolare, schietta e a volte irritantemente sincera. Sottolineo “irritantemente”, perché spontanea sorge in noi lettori l’indignazione per l’accanimento con cui il maggiore dei nostri intellettuali italiani è stato servito circa settanta anni fa. Ma abbandonando inutili polemiche, raccogliamo invece la nostra attenzione sul testo teatrale che invito ad apprezzare anche dal punto di vista strutturale, oltreché contenutistico. Scrivere bene un testo di questo tipo non è oltremodo semplice, occorre una dose di sapienziale esperienza tecnica teatrale per riuscire a impostare articolando (predisponendo a dovere) la sequenza delle scene e raccontando una storia vera, in parte reinventata al punto giusto, creando l’attesa per la messa in scena in un reale palcoscenico teatrale, perché l’opera sia veramente completata.
Gli scampoli di vita accennati negli Appunti per un’eventuale regia, e precisamente nell’Ambientazione, sono estratti dalle Lettere dal carcere, e vengono ricomposti in un intreccio multicolore, che fa respirare l’intera narrazione di aria vitale, al suono del Rigoletto dell’italianissimo Giuseppe Verdi, per tracciare i contorni di una variopinta «cultura nazionale-popolare».
Consapevole del proprio lavoro di ritrattista dei sentimenti, Piero Zucaro racconta la quotidianità del carcere, colorando con tinte forti e contrastanti fra loro attraverso i dialoghi vivaci, le allegre chiacchierate e i battibecchi tra i due personaggi. Poi ironizza sulla triste sorte del “mischinu”, citando una parola del dialetto siciliano, e mettendo in scena la pizzica, tragicomica ballata veloce per esorcizzare la morte sicura che ruberà indebitamente Gramsci alla vita.
Insomma nello squallore della cella carceraria tutto è impregnato di vita, nel tentativo di resistere alla morte futura. Quindi è doveroso organizzare una partita a carte, durante la quale chi vincerà otterrà il libro Larousse, tanto richiesto, perché la vita là fuori è lontana, chissà forse non si riesce nemmeno ad intravedere attraverso quella «finestra a bocca di lupo». I familiari, lontani fantasmi, non possono essere presenti, perciò risulta efficace la scena dell’apparizione della mamma, comparsa mentre Gramsci sta rileggendo la lettera scritta a Tania.
L’ironia narrativa esorcizzatrice viene utilizzata anche per le tematiche importanti sviluppate nei Quaderni dal carcere: la filosofia della praxis, lo Stato, la libertà, il pensiero dell’anarchico.
Nel terzo atto viene messa in scena una rappresentazione teatrale all’interno del carcere, viene creata perciò una drammatizzazione ulteriore con la tecnica del racconto nel racconto, cioè della narrazione a incastro. “L’opera del dissenso di Unico… e basta” è il titolo della finzione carceraria che introduce a una diatriba tra i diversi personaggi con un Gramsci che prevale sulla scena. Si tratta di figure a lui familiari, che assumono le sembianze di frati e suore; sembrano emergere da una condizione chiesastica, quasi da conventicola. Il personaggio denominato “L’Inquisitore”, è il direttore dell’Ospizio di Turi, quello denominato “Sparafucile”, il suo secondino e lo stesso Onorevole Gramsci che, malgrado il destino già segnato, domina la scena fino alla fine. Si tratta di una commedia elaborata all’interno del dramma principale de L’uomo di Turi, e probabilmente deve sembrare una scelta volutamente messa in essere dall’autore, perché il terzo atto possa apparire come “un teatro nel teatro” (utile è, in questo senso, il confronto con quanto lo stesso Zucaro scrive in Nota dell’autore, a pag. 17).
Il tempo scandisce inesorabile la vita carceraria, sottolineando i momenti salienti della narrazione attraverso il Coro, costituito da sei coristi e alcuni danzatori, inserito ne L’Opera del Dissenso. Propongo di riflettere sull’invenzione narrativa del coro, perché mi sembra abbia un ruolo significativo nel testo. Il coro, infatti, domanda chiarimenti, riportando i personaggi rapidamente al cospetto di una realtà che non si vuole vedere: una rivoluzione nascosta alla luce della storia, incompresa e mai realizzata, concentrando la nostra attenzione su un tema ricorrente dei Quaderni. Nel quarto quadro del dissenso si liricizza la vicenda della lettera di Ruggero Grieco, definendola «famigerata», perché, come si sa, ha fatto parlare molto di sé, dando origine a dibattiti tra linee di pensiero contrastanti, ancora vivi oggi.
Il coro canta alcuni versi in onore della libertà, ripetendo le ultime frasi del personaggio che ha parlato prima di loro, per evidenziare un ritornello appositamente voluto dall’autore. Il coro rappresenta la voce del popolo.

«Fratello, noi restiamo sempre dei poveracci!
Basta con le parole! Non vogliamo più stracci!
Che ne è stato, fratello, della rivoluzione!
Siamo stanchi, fratello, vogliam la soluzione!
A chi ci tiene chiusi, qui in cattività,
diciamo: “Sani siamo! Vogliam la libertà!”
Che ne è stato, fratello, della rivoluzione!
Siamo stanchi, fratello, vogliam la soluzione!”».


I coristi urlano rivendicazioni non previste dalle intenzioni di Zucaro, tanto da urtare la suscettibilità dell’Inquisitore, e, a questo punto della narrazione, danno l’impressione di sfuggire al controllo dell’autore. La scena diventa ora un processo fantomatico per stabilire la verità sulla lettera di Grieco, e sulle reali intenzioni, mentre la vita carceraria va affrontata allegramente, altrimenti sarà la fine di ogni respiro vitale.
Nell’Epilogo due attori decidono di seminare nella terra alcuni semi trovati nella tasca di Gramsci. Il seme cresce nella terra che rappresenta il futuro, per produrre nuove idee, una nuova era, verso la libertà e la giustizia. È la rappresentazione del possibile, del dovere che spetta agli uomini.
Dunque l’impressione dei lettori-spettatori è prepararsi all’apertura del sipario, per assistere al dramma teatrale non ancora realizzato: L’Uomo di Turi.