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Emancipare i subalterni: l’antropologia culturale ritrova Gramsci

Antonio Deias, Giovanni Mimmo Boninelli, Eugenio Testa (a cura di), Gramsci ritrovato, numero monografico di “Lares”, n. 2, anno LXXIV, Firenze, Olschki, maggio-agosto 2008, pp. 498, 25 €

Emancipare i subalterni: l’antropologia culturale ritrova Gramsci

Di Elisabetta Gallo

Dopo trent’anni di oblio Gramsci è tornato ad imporsi negli studi antropologici italiani sull’onda del successo planetario dei Cultural e Subaltern Studies. L’antropologia italiana ricorda oggi Ernesto de Martino e i venticinque anni di intensa frequentazione tra antropologia italiana e le «Osservazioni sul “folclore”» di Gramsci. Varrebbe però la pena di comprendere le ragioni di un allontanamento da Gramsci proprio quando in Gran Bretagna Raymond Williams e Stuart Hall utilizzavano il pensatore sardo per studiare la trasformazione “genetica” della cultura operaia, le dinamiche della comunicazione mediatica e del multiculturalismo negli anni del teatcherismo. La rivista di

demoetnoantropologia “Lares” (Ed. Olschki, Firenze), ha raggruppato in un unico numero monografico intitolato Gramsci ritrovato (anno LXXIV, n. 2, € 25.000, pp. 498) i contributi ai due convegni tenutisi a Nuoro (rispettivamente nel settembre 2007 e ottobre 2008) di Alberto Maria Cirese, Pietro Clemente, Giorgio Baratta, Miguel Mellino, Anne Showstack Sassoon, Brigitte Wagner, Clara Gallini, che tentano riflettere sulle ragioni di questo abbandono ma anche sugli attuali indirizzi della etno-antropologia italiana.
Nel secondo dopoguerra la disciplina aveva tentato di uscire sia dalle logiche meramente classificatorie che dall’astrattezza vaga e romantica in cui il concetto di popolo (grazie anche alle politiche culturali del fascismo) continuava ad essere concepito. Si cercò quindi di collegare lo studio della cultura popolare ad una più vasta comprensione storico e socio-politica delle condizione dei ceti subalterni, rinsaldando fatti culturali e fatti sociali. In questo filone, stimolato dalla tematica meridionalista di Levi, dallo storicismo di eroico di Ernesto de Martino ma soprattutto da Gramsci, si inserisce il manuale di Alberto Maria Cirese Cultura egemonica e culture subalterne (gramsciano fin dal titolo). L’impressione è che la disciplina si sia poi arenata proprio di fronte ai mutamenti storici che negli anni ’80 investivano l’Italia e l’Europa: la scomparsa del mondo contadino, la destrutturazione delle classi sociali, l’affermarsi della cultura di massa.
Ed è proprio Cirese ad evidenziare le difficoltà dell’antropologo a “ritrovare” Gramsci nel panorama di studi attuale, a partire dalla definizione di “folclore”. Negli scritti gramsciani le qualificazioni assegnate al folclore convergono sul negativo (“niente è più contraddittorio e asistematico, disseminato e molteplice, non elaborato, indigesto…”), come un insieme da “estirpare” nel suo complesso a favore di un pensiero organico. Non mancano in Gramsci accezioni positive del folclore: la sua tenacia, la sua resistenza agli indottrinamenti del potere (una forza “granitica” tanto quanto quella materiale), la sua capacità di aderire spontaneamente alle condizioni reali della vita e di avere degli aspetti progressivi. Ma operatore (e mediatore) del passaggio da un “progressivo” ancora folclorico ad un “progressivo pienamente egemonico” resta il partito operaio non ancora al potere. A parere di Cirese tra sentimenti spontanei e “direzione consapevole” Gramsci si sbilancia a favore della “direzione consapevole”, in marcia verso la “società regolata”, verso l’unica concezione della storia integrale e organica. Oggi, che dal nostro orizzonte è scomparso lo Stato bolscevico e un riferimento internazionale al partito operaio, che città e campagna, centro e periferie, sono molto più omologate agli stessi modelli culturali e mediatici, siamo certi, si domanda Cirese, che i concetti di “subalterno” e “folclore” significhino, in Occidente, quello che per Gramsci significavano nella Sardegna all’inizio del secolo o nell’Italia contadina degli anni ’20-’30?
E’ vero che Gramsci dilata sua nozione di “concezione organica del mondo” fino a comprendere le più bizzarre, disgregate e occasionali combinazioni di elementi eterogenei e “indigesti”, aggredendo le concezioni tradizionali che identificano la “cultura” con al propria cultura e riducono la storia a storia dei vertici ma, conclude Cirese, non si può dimenticare che Gramsci ci ha lasciato una delle più chiuse formulazioni sia della visione eurocentrica della storia culturale del mondo.
Se è risultato difficile per l’antopologia seguire Gramsci nella sua grande prospettiva di filosofia della storia, affrontare il problema dei subalterni separatamente dalla “cultura di massa”, considerata antropologicamente inautentica e “puramente egemonica”, ha finito con l’impantanare la stessa etno-antropologia. La famosa domanda di Gayatri Spivak: “Possono i subalterni parlare?” ha posto il problema del “folclore puro”: quali codici e categorie utilizzare per comprendere realtà estranee all’Occidente e alla sua razionalità. Questa immane difficoltà ha finito con l’oscurare l’altro versante del problema: chi è disposto ad ascoltare i subalterni? Quanti di loro vengono invitati ai convegni? A quanti tra loro viene data la possibilità di accedere agli strumenti culturali? O persino ai beni comuni di prima necessità? A dirla con Clara Gallini, che succede quando gli “umili” manzoniani diventano gli umiliati? Ecco quindi che una nuova spinta agli studi etno-antropologici può essere trovata nel superare il concetto di un “folclore puro”, non contaminato dalla modernità, dalla industrializzazione dai modelli occidentali, contrapposto ad un astratto “puro egemonico”, un dominio compatto, senza incrinature né contraddizioni. Nel tentativo di evitare chiavi di lettura “eurocentriche” del mondo post-coloniale, si è finito col perdere di vista come la conservazione di alcune strutture arcaiche sia indispensabile allo sfruttamento neocoloniale da parte delle multinazionali. Il progetto egemonico non si realizza mai fino in fondo nemmeno nelle società occidentali sia in quanto incontra sacche di resistenza sia perché parte della cultura folclorica gli è assolutamente funzionale. La lotta per l’egemonia messa a punto da Gramsci rimane quindi un concetto estremamente produttivo per comprendere il mondo dei subalterni in quanto coacervo composito di folklore (anche nell’accezione, sempre gramsciana, di “folklore moderno”), tecnologia, potere dominante, in una prospettiva di emancipazione.
Come osserva giustamente Giorgio Baratta, il “Gramsci ritrovato” dall’antropologia va oltre la rigidità storicista. Sicuramente il “filo rosso” della concezione gramsciana sta nella convinzione che la modernità è caratterizzata da una tendenza irresistibile alla «unificazione del genere umano». Ma sebbene Gramsci si collochi nel solco tracciato da Hegel e sia figlio di questa tradizione, ci indica la strada della comparazione tra culture e possibilità di “traduzioni” reciproche, descrivendo il superamento della scissione tra filosofia elitaria e “mummificata cultura popolare”. Malgrado Gramsci insista sulle accezioni negative del folclore come insieme disorganico, fossile, mai completamente assimilabile, secondo Baratta il folclore rimane il riferimento indispensabile per l’intellettuale se non “organico” (non sapremmo forse oggi chiaramente indicare cosa “organico” significhi) sicuramente “critico”, attento cioè a quanto si muove nei luoghi dell’emarginazione. La cultura subalterna e la cultura critica si saldano così inscindibilmente.
Nella monografia, un interessante contributo di G.M. Boninelli sottolinea come il Gramsci pre-carcerario abbia osservato l’Italia stravolta da eventi epocali con una sensibilità squisitamente antropologica, persuaso com’era che l’Italia fosse “sconosciuta”, soprattutto l’Italia dei subalterni, contadina e operaia, e quanto fosse urgente, anche per orientarsi politicamente, una “storia dei contadini e degli operai italiani”. Ma come si concilia allora questa esigenza con la severità dei giudizi gramsciani sul folclore? “Siamo di fronte ad una tensione interna del pensiero gramsciano, oppure ad una difficoltà interpretativa?” si domanda Fabio Dei, il quale avanza una interessante considerazione: il termine “folclore” si lega negli anni ’20 e ’30 al contesto e a quella tradizione di studi italiana che lo riducono al pittoresco e primitivo e che aderiscono a rappresentazioni idilliache ed antistoriche di “popolo”. Il Gramsci più caustico nei confronti del “folclore” si riferisce all’oggetto creato da questa “scienza” (e da questa politica): fossilizzato e destoricizzato. Ma nella scienza moderna, conclude Dei, “tutto, proprio tutto, va in direzione contraria all’idea che oggetto di una scienza possa essere la concezione del mondo delle classi subalterne separatamente ed isolatamente dalle concezioni egemoniche della cultura moderna”.
Gramsci metteva proprio in discussione sia la concezione positivista della separazione, fossilizzazione e classificazione del fenomeno che la concezione oleografico-ideologica, giustificatrice di un concetto pittoresco di popolo e funzionale ad una concezione dello Stato paternalistica ed autoritaria. Il contributo teorico di Gramsci continua quindi ad sollecitare una svolta antipositivistica sul piano scientifico dell’antropolologia ma anche una svolta antiburocratica sul piano della politica, più “d’inchiesta” e meno di liturgia.