Rassegna Stampa

IL GRAMSCISMO TARGATO AN

Le curve degli stadi, le sezioni, le radio locali, la militanza. Così nasce il "gramscismo" targato An
Sinistra, alle ortiche l'egemonia e la destra allora recupera Gramsci

di Guido Liguori

La notizia data nei giorni scorsi dai giornali è certo gustosa: il sindaco di Roma Alemanno, invitato da Giuseppe Vacca, si reca in visita alla Fondazione Istituto Gramsci, accolto doverosamente in pompa magna da tutto il gruppo dirigente della stessa, ne visita e ne loda gli archivi, si siede sulla poltrona che fu di Togliatti e soprattutto firma un accordo per donarle una nuova sede più grande e funzionale. In tanti anni in cui è stato sindaco a Roma mai Veltroni aveva visitato il Gramsci (che forse ha il torto di non chiamarsi Fondazione Kennedy) né, soprattutto, aveva trovato per esso una nuova sede, nonostante le promesse. Dunque un sindaco "fascista" - lo scrivo tra virgolette

perché credo al revisionismo di An, nonostante l'incongruenza vergognosa della croce celtica che il sindaco di Roma porta al collo, sia pur nascosta sotto la camisa non più negra -, di formazione fascista (qui le virgolette non ci vanno), leader della corrente "sociale" del suo partito (fascismo di sinistra, in un certo senso), genero e allievo del fascistissimo Pino Rauti, si dimostra più sensibile dei liberal nostrani nei confronti della tradizione e del lascito storico-culturale del comunismo italiano. Ha dichiarato Alemanno: «negli anni '80 studiavamo Gramsci, ci fu il cosiddetto "gramscismo di destra", un contributo importante per poter vedere una diversa dimensione della politica. Gramsci lo considero come uno dei grandi del pensiero politico del ‘900». E' ovvio che i giornali più o meno di destra sguazzino nella notizia. E alla visita di Alemanno sommano le celebrazioni per il centenario della nascita del futurismo, ricordando l'interesse gramsciano per il movimento di Marinetti che oggi la destra continua a rivendicare come cosa sua. La vicenda ha almeno due aspetti: di merito e di valenza politica. Iniziamo a vedere cosa sia questo "gramscismo di destra". In Italia esso è stato poco o nulla. L'espressione è nata in Francia grazie al pensatore allora - negli anni '70 - di estrema destra Alain de Benoist. Pensatore interessante sotto più punti di vista, ma certo non insigne studioso di Gramsci. Il suo "gramscismo di destra" esprimeva solo l'esigenza generica che la destra dovesse prestare attenzione alla dimensione culturale e metapolitica, per rifondare se stessa e dar vita a un nuovo senso comune. E ciò a partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e si identifichi con la propria cultura. Ciò che la destra italiana trasse da questo messaggio negli anni novanta fu la convinzione che la forma-partito non fosse da buttare, ma da aprire alla società, usando anche (ma non solo) la dimensione culturale e massmediologica, che è parte rilevante della società stessa. Il grande fiorire di iniziative che in alcune zone del paese questa destra è stata capace di porre in essere - dalle radio locali alle feste di quartiere, dai giornaletti di circoscrizione agli incontri coi cittadini sui problemi della vita rionale, alla lettura del fenomeno calcistico come veicolo di aggregazione, con la pay-tv gratuitamente fruibile in sezione come con alcune frange ultras affamate di vita "comunitaria" allo stadio, fino al contenzioso (di valore simbolico: Gramsci docet) sulla toponomastica - è definibile, in un certo senso, come "gramscismo di destra", cioè impegno per la creazione di un senso comune anche non immediatamente politico, ma che poi ovviamente è destinato ad avere la sua ricaduta anche sul piano politico.
Lascerei invece da parte, almeno in questa sede, l'accostamento più o meno strumentale del nome di Gramsci al ricordo del futurismo, fatto senza contestualizzazione storico-culturale, puntando sull'attenzione giovanile al fenomeno e senza menzionare i duri giudizi che troviamo nei Quaderni, dove i futuristi sono sarcasticamente definiti «un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula della guardia campestre».
Ma veniamo alla sostanza politica della visita di Alemanno e dei significati più generali a cui rinvia. Chi ha colto meglio il punto di quanto è successo negli ultimi giorni - o meglio di quanto la visita di Alemanno ha evidenziato - è il Secolo d'Italia , per cui la vicenda prova «quanto ormai la destra, politica e culturale, abbia finalmente conquistato la libertà di manovra in territori immensi, fino a qualche anno fa inimmaginabili». Essa si dimostra capace di «demolire pezzo a pezzo un'egemonia culturale più subita che imposta»: l'egemonia della sinistra, ovviamente.
C'è molto di vero in queste osservazioni del quotidiano organo di Alleanza nazionale. Anche le quattro paroline ultime che ho riportato, pur se suonano nel contesto un po' forzate: poiché ogni egemonia è «più subita che imposta». Nel senso che nel campo di forze nel quale perennemente si combatte la lotta per l'egemonia sempre una parte ha la meglio se l'altra cede il campo, non sa difendere il suo punto di vista, la sua "parzialità", base di partenza irrinunciabile da cui muovere per farsi "interesse generale". Sul rapporto dialettico tra difesa della propria "parte" e volontà-capacità di farsi difensore dell'"interesse generale" (selezionando ovviamente le priorità, le alleanze, gli obiettivi: e qui sta il difficile, e qui vi furono forse errori decisivi), il Pci aveva costruito la propria forza. Non solo quel partito, quella tradizione, quell'abito mentale, quella capacità egemonica sono stati masochisticamente buttati alle ortiche. Ma chi, dopo quel suicidio, ha cercato e cerca di dirsi comunista non ha saputo riproporre quella tensione politico-culturale, quel rapporto dialettico tra la parte e il tutto, farsi carico degli interessi e delle rivendicazioni di tutti i "subalterni" senza che andasse in qualche modo persa la centralità della difesa del lavoro e del suo punto di vista. "Subalterni": quanto ci aiuterebbe ancora il lessico gramsciano! Ma la ricchezza euristica di questa categoria, ad esempio, capace di unire in modo anti-economicistico ma non antimarxista chi soffre il dominio di classe e chi quello di casta, chi l'oppressione culturale e chi quella patriarcale, ecc., l'hanno dovuta riscoprire in India o nel dibattito statunitense, mentre da noi si correva appresso all'evanescenza della moltitudine... E' ha partire dalle nostre debolezze, anche culturali, che la destra ha «conquistato la libertà di manovra in territori immensi», col revisionismo storiografico a cui anche intellettuali di sinistra hanno contribuito, con la riscrittura della storia del Novecento a cui tanta parte degli intellettuali di sinistra non hanno saputo opporsi, con la demonizzazione della storia del comunismo che anche a sinistra è stata fatta, e non solo dai liberal. Abbiamo permesso un nuovo analfabetismo culturale di massa, aprendo così le porte a un nuovo senso comune: quello del nemico. Venuto meno il Pci, sono state perse o depotenziate tutte le nostre "casematte": le scuole di partito sono state chiuse, la stessa Fondazione Gramsci si è rifugiata nell'"alta cultura", necessaria ma non sufficiente, la fitta rete dei circoli Arci, le case del popolo, ecc. sono state snobbate da una sinistra snob. La formazione del senso comune - nelle curve degli stadi, nelle sezioni territorialmente capillari, nella giungla delle radio locali, nella militanza door to door - in molte situazioni è stata lasciata, per anni, quasi solo ai ragazzi di Alemanno. Ecco, questo forse è stato il "gramscismo di destra" in Italia: una prassi più che una teoria. Una prassi che ci ha fatto male, non meno delle tv di Berlusconi. A noi il compito di ripartire da un "gramscismo di sinistra".