Rassegna Stampa

CROCE E GRAMSCI - UNA LETTERA DI PASQUALE VOZA

4 settembre 2012
CROCE E GRAMSCI
Una lettera di Pasquale Voza

Caro Manifesto, vorrei intervenire anch'io nel dibattito suscitato dall'articolo importante e «provocatorio» su Croce di Marco D'Eramo. Lo faccio per un motivo di fondo: perché ritengo «appassionatamente» che non si possa e non si debba affrontare quella che Gramsci chiamava la «questione politica degli intellettuali» sul terreno ideologico-valutativo dei gusti culturali, ricalcando la «critica ideologica» degli anni Cinquanta (ciò che è progressivo e ciò che è reazionario: Salinari, il lukacsismo italiano ecc.) in forme

nuove ma pur sempre convergenti (ciò che è europeo e ciò che è provinciale, ciò che è raffinato e moderno e ciò che è arretrato e piccolo-borghese). Se Marx, invece del suo Anti-Hegel, e Gramsci, invece del suo Anti-Croce, avessero voluto fare gli «schifiltosi», quante ne avrebbero potuto dire sui loro due autori! Il sistema idealistico-crociano era per Gramsci un sistema egemonico, capace nei tempi moderni di «esalare» un «morfinismo politico» e di passivizzare intere masse intellettuali e giovanili, in particolare nel Mezzogiorno, con i valori dell'Arte e dell'etico-politico e della «religione della libertà». Per fare questo, Croce era dovuto diventare il più grande revisionista europeo del marxismo (più grande degli stessi Bernstein e Sorel, con i quali, del resto, era in dialogo). La riduzione del marxismo a economicismo e a puro canone empirico di interpretazione della storia dava vita in Croce alla storia etico-politica, alla cattura di una costante «eterna», cioè la funzione dirigente delle élites: perciò egli diceva che fare storia è un «memento» (ricordati che il mondo va così e sempre andrà così). «La storia ridotta sotto il concetto generale di arte»: nel 1893 Croce scriveva questo testo per ammonire che la storia è sempre storia dei momenti «catartici, artistici», cioè, non della lotta ma dei momenti dirigenti, ricompositivi e liberali, cioè delle classi dirigenti. Gramsci parlava di «concordia discors» tra Croce e il fascismo, e sentiva il bisogno di decostruire criticamente il terribile apparato egemonico- moderato del «papa laico» e, anzi, segnalava questo compito critico-conoscitivo come il compito a cui avrebbero dovuto attendere due generazioni di comunisti. Mi fermo qui: posso stare tranquillo (lo chiedo timidamente) che non scatti un qualche riflesso condizionato che magari faccia dire che proprio per questo Gramsci era un po' provinciale, e anche subalterno alla prosa di don Benedetto?

"Il Manifesto"